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Autore: Mirella Mazzarini

Presidente dell'Unicef Marche ed ex dirigente scolastica. Da anni è impegnata nel campo del volontariato e della pedagogia.

Ricordare Danilo Dolci a cento anni dalla nascita

“Se l’occhio non si esercita, non vede.
Se la pelle non tocca, non sa.
Se l’uomo  non immagina, si spegne.”

Versi tratti dalla poesia “Il limone lunare”

Impiegare la propria esistenza per dare valore non solo alla propria ma soprattutto a quella degli altri è l’assunto che caratterizza Danilo Dolci come poeta, sociologo, educatore.

Danilo Dolci va ricordato per le azioni e l’impegno volti all’emancipazione sociale, nella volontà incondizionata di assumere la lotta non violenta come testimonianza e messaggio di vita.

La figura di Danilo Dolci può essere compresa in riferimento alle trasformazioni civili e politiche che hanno interessato gli anni cinquanta e sessanta, anni di profondi cambiamenti che lo vedono protagonista con la pubblicazione di inchieste sociali quali “Banditi a Partinico”, in cui affronta la realtà alla base del banditismo collegando i temi del come si vive, come si amministra, come si educa, come si assiste e si cura. Le sue analisi sono sempre tese a promuovere azioni politiche e morali dal basso, a offrire soluzioni concrete per il benessere quali possono essere i servizi, l’acqua, la casa, la scuola. Norberto Bobbio ha colto come la via intrapresa da Danilo Dolci non abbia fatto distinzioni tra predicare e agire e abbia fatto risaltare la buona predica dalla buona azione. Intuizioni innovative sul piano del pensiero e su quello dell’agire che hanno condotto Danilo Dolci a richiamare l’attenzione con uno sciopero della fame che sarà la molla per una amicizia profonda con Aldo Capitini, filosofo del Movimento Nonviolento italiano che nel 1961 promuoverà la prima marcia della Pace Perugia-Assisi.

Danilo Dolci nasce come poeta, ma desiderava capire la realtà siciliana, soprattutto quella delle zone più povere e marginali, per dar vita a trasformazioni nonviolente. Segue l’esperienza di Nomadelfia, la comunità utopica fondata da don Zeno Saltini, che nel dopoguerra accoglieva orfani e famiglie indigenti.

La sua idea di scuola connota il suo essere educatore innanzitutto, piuttosto che teorico della pedagogia perché gli interessa sempre come intervenire, come cambiare la società. Con il Centro Studi di Trappeto (Partinico) e la lotta contro la mafia sarà conosciuto come “profeta della non violenza”, come il Gandhi della Sicilia o il Gandhi italiano.

Danilo Dolci ha lavorato per seminare, costruire, testimoniare una coscienza sociale e per l’educazione possiamo riprendere quanto detto da John Dewey per cui: “Tutta l’educazione si svolge nel senso di una progressiva partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della comunità”. Ha avuto tanti sostenitori lungo il suo cammino, da Italo Calvino a Bertrand Russel ma anche tanti oppositori e denigratori che non gli hanno tuttavia impedito lunghe battaglie fatte anche di digiuni e mobilitazioni popolari.

Come educatore si è impegnato per una scuola interessata al sociale, alla condivisione, per una politica fatta di slancio ideale, formazione alla democrazia e non ideologismo. Il suo sguardo è stato rivolto non allo schierarsi ma alla liberazione, concependo l’esistenza come processo creativo. Ha privilegiato la domanda e l’esplorazione per cercare ciò che non appare, che supera la consuetudine del fare. La domanda come costruzione: una pedagogia maieutica. Pioniere e precursore della tecnica del circle time, ha favorito sempre il dibattito e l’approfondimento, chiedendo alle sue alunne e ai suoi alunni di parlare non tanto degli scopi che perseguono quanto dei loro sogni perché ciascuno possa essere protagonista e creatore della propria esistenza. Negli anni settanta è stato forte il suo impegno nel diffondere l’esperienza di educatore con il Centro Educativo di Mirto presso Partinico, oggi riconosciuto come una delle migliori scuole sperimentali nate in Italia.

C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo,
aperto ad ogni sviluppo
ma cercando d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.

Autorealizzazione, bisogni e motivazioni nella teoria di Abraham Maslow

Gli interrogativi legati alla dinamica del soddisfacimento dei bisogni umani sono al centro degli studi e delle osservazioni dello psicologo statunitense Abraham Maslow, che, nel libro “A theory of human motivation” uscito nel 1943, presenta la piramide dei bisogni che costituisce un riferimento fondamentale per gli studiosi del comportamento umano nella realtà dei contesti esistenziali. La pubblicazione, successivamente rivista e integrata mantiene la sua attualità proprio per il tentativo di cogliere i bisogni nella loro natura e nelle possibili articolazioni e rappresentazioni.

Ricercatore, tra I principali esponenti e fondatori della psicologia umanistica, Maslow è interessato alle dinamiche che caratterizzano l’evoluzione degli individui non per gli aspetti di problematicità e conflittualità, ma per quelli legati alle possibilità di autorealizzazione.

La teoria della gerarchia dei bisogni viene presentata da Maslow per mezzo di una rappresentazione grafica molto efficace, chiara nel messaggio e incisiva nella proposta, tanto da essere nota a livello di studi psicologici, nel settore commerciale e del marketing. È una struttura piramidale che evidenzia la struttura gerarchica dei bisogni a partire dai bisogni fisiologici che ne costituiscono la base. Seguono i bisogni di sicurezza, di appartenenza e di stima e, infine, all’apice della scala, i bisogni di realizzazione di sé. Così ogni individuo, per crescere nella consapevolezza di sé, per percepire livelli esistenziali complessi e superiori, deve innanzi tutto soddisfare i bisogni primari legati al cibo, al dormire, all’aria, all’acqua, alla sessualità.

Si tratta dei bisogni fisiologici, fondamentali per garantire la vita come sopravvivenza e riproduzione che, una volta appagati, aprono alla possibilità di vivere livelli superiori di esistenza personale e sociale. Il bisogno di sicurezza, per Maslow, comprende aspetti fisici, ma anche economici, riguarda l’incolumità e la comprensione reciproca nella sfera delle relazioni. Oggi sappiamo che i livelli di soddisfacimento dei bisogni sono strettamente correlati e spesso non possono essere esaminati se non nella loro significativa integrazione di dati personali, culturali e sociali, basti pensare al concetto di protezione e tutela.

Molto si discute di sicurezza un tema cruciale per il lavoro, un asse nella dimensione psicologia nella crescita, un obiettivo nelle scelte di vita, un interrogativo che riguarda la gestione dei territori, il clima e l’economia. Un concetto ampio, che sembra interpretare le tensioni della modernità e la precarietà della condizione umana.

I livelli più alti proposti da Maslow nella sua scala vedono emergere, di seguito, bisogni che poggiano sulle potenzialità dell’individuo che cresce nell’autostima e nel riconoscimento sociale. A Maslow interessa uno sviluppo della persona a “dimensione umana” perché l’autorealizzazione contempla una identità forte, in cui  l’individuo possa vivere l’esistenza in modo flessibile ed equilibrato, in un processo di adattamento orientato al benessere personale e sociale. Quella di Maslow è una ricerca continua e molto attuale, capace di  indagare la correlazione tra i bisogni dell’essere umano e le motivazioni che lo spingono a soddisfarli. Le potenzialità non possono realizzarsi fuori del contesto sociale, sono dinamiche e aperte agli stimoli esterni. Le ripercussioni sulle motivazioni all’apprendimento durante il periodo pandemico hanno dimostrato quanto incidono sulla personalità in formazione fattori di grande insicurezza che generano ansia, solitudine e demotivazione. Gli esseri umani hanno bisogno di affrontare la vita in condizioni tali da poter soddisfare i bisogni primari innanzi tutto, devono essere nutriti e protetti. Su queste basi nasce la relazione sicura, la fiducia e la motivazione a realizzare talenti e potenzialità.

Molti temi possono essere affrontati con riferimento al pensiero di Abraham Maslow, basti pensare alle proposte comunicative che pongono come bersaglio proprio i bisogni sui quali appare necessario richiamare l’attenzione e guidare le scelte di coloro ai quali si rivolgono i messaggi.

Se la piramide dei bisogni costituisce un valido strumento di analisi, tuttavia una interpretazione gerarchica stretta dei livelli può essere riduttiva e non rispondente alla necessità di guardare alla complessità dei bisogni degli individui, nelle varie interrelazioni che ciascuna storia personale può presentare. Resta fondamentale il riferimento alla psicologia umanistica che pone la centralità di un approccio attento alla persona e allo sviluppo armonico e integrato delle sue potenzialità.

Le skills del futuro: il ruolo della formazione

Trattare di soft skills vuol dire guardare al sistema formativo collocato in contesti ampi, nazionali ed europei, che superano la dimensione dell’azione didattica del singolo istituto scolastico. Proprio le raccomandazioni del Consiglio dell’Unione Europea chiedono alla scuola di favorire la maturazione della personalità dei ragazzi in vista di un loro futuro produttivo e creativo. Le ragioni di una apertura al territorio, di una programmazione partecipata considerano lo sviluppo delle competenze trasversali come asse fondamentale per la realizzazione personale e per avere un ruolo attivo nella società, attraverso un apprendimento incentrato verso attitudini e abilità utili per la vita.

Si tratta di lavorare su attitudini personali e competenze trasversali attraverso un apprendimento permanente, fondamentale per la realizzazione individuale, l’inclusione sociale, uno stile di vita sostenibile, una cittadinanza attiva. La terminologia riguardante le skills presenta una gamma ampia di riferimenti, spesso utilizzati come sinonimi. Si parla di General Skills (abilità generali), Basic Skills (abilità di base), Essential Skills (abilità essenziali), Life Skills (abilità di vita).

Il disagio, l’ansia, la pressione che comportano la valutazione e la possibilità di prestazioni in linea con le attese dei contesti scolastici e familiari, possono trovare una risposta proprio in quelle Skill cha aiutano gli studenti a migliorare la vita e il benessere psico sociale.

Tra le life skills rientrano la comunicazione efficace, la gestione delle emozioni, la capacità di prendere decisioni. L’asse di riferimento è dato dalla salute in senso ampio, intesa come consapevolezza di sé e orientamento al futuro, come possibilità  di affrontare le sfide della quotidianità e l’essere capaci di definire orizzonti significativi. L’OMS riconosce la priorità di competenze che possono essere raggruppate secondo tre aree. In quella emotiva rientrano la consapevolezza di sé, la gestione delle emozioni e la gestione dello stress. In quella di tipo relazionale si ritrovano l’empatia, la comunicazione efficace e le relazioni positive. Dell’area cognitiva fanno parte la capacità di risolvere problemi, il pensiero critico e la creatività.

Volendo differenziare si può trattare delle life skills come possibilità di migliorare la propria vita nella direzione di una accresciuta consapevolezza, mentre le soft skills si riferiscono alle abilità sociali e comportamentali, come la capacità di lavorare in team.

A scuola diventano così obiettivi fondamentali lo sviluppo della creatività, la tensione a un sempre maggiore equilibrio, la tolleranza come gestione dello stress, la capacità di prendere decisioni e di negoziare. Un elenco possibile delle soft skill mette al primo posto l’autonomia, come capacità di risolvere compiti assegnati, la fiducia in se stessi, l’adattabilità a nuove situazioni, il problem solving, lo spirito d’iniziativa e la capacità di gestire le informazioni.

I cittadini del futuro di quali capacità dovranno innanzitutto essere dotati? Quale incidenza avrà nella formazione lo scenario dei cambiamenti nel modo del lavoro? Le ricerche dicono che nel 2030 i giovani faranno un lavoro che non esiste ancora. Non siamo in grado di prevedere le competenze di cui le persone avranno bisogno nei prossimi decenni. La psicologia e le neuroscienze indicano come fondamentale la flessibilità cognitiva, la capacità di adattarsi a nuovi compiti per cambiare strategie di pensiero in risposta a nuove situazioni. Spetta alla scuola esercitare questa competenza in ogni curriculum formativo, rispettando le esigenze e l’età degli alunni.

Le ricerche di settore individuano l’ambito delle abilità digitali come settore di competenze richiesta a partire dalla formazione di base per l’importanza dell’utilizzo del computer e delle tecnologie dell’informazione ma, al tempo stesso, emerge la necessità di lavorare su strategie di apprendimento che permettano di affrontare problemi inediti, legati in prospettiva all’intelligenza artificiale, con capacità di analisi e creative. Tra le competenze ritenute fondamentali uno spazio significativo ha assunto la resilienza come strategia e skill che le situazioni difficili e i cambiamenti della vita pongono agli individui per far fronte a crisi e difficoltà. Si tratta di una capacità dinamica che spinge a riorganizzare il proprio vissuto in maniera positiva, in risposta alle emergenze che la vita presenta, nei vari aspetti di problematicità e imprevedibilità, nei confronti di se stessi, degli altri, del mondo. In un orizzonte con sempre nuove competenze, resta fermo che scuola e famiglia sono garanti e responsabili di preparare il futuro nella consapevolezza dell’importanza di tre direzioni che vanno considerate struttura portante della formazione: l’inclusione sociale, l’empatia, il rispetto dei valori umani.

Marco Polo. Il viaggiatore che scopri l’Oriente

Marco Polo cittadino della Repubblica di Venezia e cittadino del Mondo

700 anni dalla morte di Marco Polo (Venezia, 15 settembre 1254 – Venezia, 8 gennaio 1324)  
Viaggiatore, scrittore, ambasciatore e mercante italiano, cittadino della Repubblica di Venezia e cittadino del mondo.

lI Milione, romanzo d’avventure tra i più letti della storia, è il primo libro di viaggio.

Raffaello Libri, nella collana “Il Mulino a Vento” ha pubblicato “Il Milione” di Marco Polo come testo pensato per gli alunni delle scuole, corredato da approfondimenti, fascicolo di comprensione del testo,  schede interattive e proposte di lavoro. Il libro è un invito a viaggiare nel magico Oriente, “verso mondi sconosciuti e di straordinaria bellezza che nascondono grandi misteri e grandi tesori, dove il tempo sembra dilatarsi fino a scomparire”.

Il Milione di Marco Polo è un’opera straordinaria, un testo classico, uno dei libri più diffusi e tradotti al mondo. Consultato come documentazione di luoghi e costumi sconosciuti all’Occidente, rappresenta un contributo fondamentale per la conoscenza reciproca tra Oriente e Occidente.

Secondo la definizione di Cesare Segre è un “trattato geografico” in cui descrizione scientifica e dimensione immaginativa sono perfettamente fuse nello sguardo aperto allo stupore di un giovane veneziano, dotato di slancio conoscitivo e di curiosità.

Il titolo dell’opera di Marco Polo deriva da “Emilione”, nome usato dai Polo per distinguersi dalle diverse altre famiglie Polo che esistevano nel Duecento a Venezia. In realtà, in origine il libro fu scritto e diffuso in francese e con diversi titoli: Divisament dou monde, oppure Livres des merveilles du monde, oppure, in latino, De mirabilibus mundi.

Il Milione vuole essere “la narrazione delle immense e disparate meraviglie di vaste contrade d’Oriente”, un resoconto di viaggi affrontati con spirito di avventura, durato ventisei anni, intrapreso da un giovane di 17 anni, che torna alla sua Venezia quando è ormai un uomo di oltre quarant’anni.

Il Milione venne scritto durante la prigionia di Marco Polo a Genova, dettato al letterato Rustichello da Pisa, entrambi fatti prigionieri dei genovesi in due successive battaglie. Marco quasi sicuramente fu catturato mentre si trovava in una nave veneziana dai rivali della Repubblica di Genova mentre Rustichello era in prigione già da quattordici anni quando incontrò il mercante veneziano nel 1298. Fu appunto il carcere l’occasione che permise a Marco di lasciare memoria dei venticinque anni (1271-1295) trascorsi viaggiando tra la Persia e la Cina, alla corte del Gran Khan. Rustichello seppe prestare la sua esperienza di letterato alla documentazione che Marco gli affidò perché ritrovasse voce e  vita in una dimensione fantastica.

Marco Polo, figlio di mercanti, intraprese il viaggio insieme al padre Nicolò e allo zio Matteo giungendo, attraverso la Via della Seta, fino in Cina, ovvero in Catai, alla corte del Gran Khan Kublai.

Dignitario, esploratore, messo, forestiero, mercante, consigliere, ambasciatore, Marco visse il tempo come trasformazione continua della propria individualità per restituirci un tempo senza confini.

Attento agli aspetti sociali, culturali, politici, amministrativi, ambientali dei paesi che attraversava, ha saputo illustrare le varie tappe con analisi minuziose e caratterizzazioni puntuali.

Leggere oggi Il Milione vuol dire ripercorre le tappe di un viaggio fonte di scoperte continue tra forme culturali diverse, per la ricerca e l’affermazione dell’identità. Marco Polo è capace di accettare le prove che la vita gli presenta durante il lungo viaggio, sempre disponibile all’incontro con l’altro e costantemente teso verso il nuovo.

I fratelli Niccolò e Matteo Polo non erano certo alla prima esperienza quando decisero nel 1271 di partire per l’Asia portando anche Marco, ormai abbastanza grande. Circa dieci anni prima avevano attraversato l’Asia centrale per i loro interessi di mercanti e avevano incontrato in Cina Kubilai Khan che li aveva accolti con soddisfazione. Di seguito si erano recati a Roma con un’ambasciata del Gran Khan che chiedeva al Papa missionari per le terre della Mongolia. Con Marco, i Polo viaggiarono per oltre tre anni per i percorsi noti come Via della Seta. Quando giunsero nelle terre del Kublai Khan, il sovrano ebbe Marco in simpatia e lo nominò prima consigliere e poi ambasciatore. Gli anni passarono tra sfide difficili e successi diplomatici, in spostamenti fatti di lunghi tragitti in Tibet, Yunnan, Birmania. Marco ritornò in Europa, a Venezia dove era nato, dopo 24 anni, il 9 novembre 1295. In prigione per un anno, nel 1299 fu rilasciato e ritornò nella sua Venezia. Si sposò ed ebbe tre figlie.

Uomo “cosmopolita”, Marco Polo imparò il cinese, affascinato da una civiltà sorprendente. Vide per la prima volta la carta stampata, i fuochi d’artificio, i fiammiferi, le porcellane. Conobbe e seppe descrivere il petrolio, il carbon fossile, l’amianto che bloccava l’azione distruttrice del fuoco. La sua sensibilità ci ha restituito descrizioni  coinvolgenti di Mosul, Baghdad, Tabriz e di tanti altri luoghi tra cui  la terra della presunta tomba dei re Magi.

COLA PESCE: la magia di una fiaba siciliana

Italo Calvino, Fiabe italiane 
COLA PESCE: la magia di una fiaba siciliana

Fantasia e narrazione 
Raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino, Einaudi, 1956 (Volume secondo, 147, Cola Pesce). 

Cola Pesce è una fiaba che trae la sua origine nel territorio di Palermo, in Sicilia, una regione privilegiata, secondo Calvino, per quantità e qualità di fiabe raccolte nel tempo, grazie anche all’importante lavoro di ricerca di Giuseppe Pitrè. 

La scelta del testo trascritto da Calvino, vuole riconoscere la ricchezza della narrativa orale propria della Sicilia, che vede ben diciassette versioni popolari della famosa leggenda. Grandi e bambini si immergono come Cola Pesce in avventure magiche, in trasformazioni emozionanti che producono incantesimi capaci di liberare e di liberarsi. Cola Pesce è un personaggio leggendario che diventa mito nello svelare aspetti misteriosi della Sicilia, nei quali si fondono credenze popolari e storia.  

È possibile evidenziare nel testo una dimensione formativa che, a partire dall’immaginazione, traccia percorsi interpretativi nella direzione dell’appartenenza, del valore del coraggio, dell’amore per la propria terra.

 
147. Cola Pesce (Palermo) 
Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio di nome Cola, che se ne stava a bagno nelmare mattina e sera. La madre a chiamarlo dalla riva: – Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce! 
E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Ungiorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò unamaledizione: – Cola! Che tu possa diventare un pesce! 
Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte, e la maledizione della madre andò a segno: in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana. In terra Cola non ci tornò più e la madre se ne disperò tanto che dopo poco tempo morì. 
La voce che nel mare di Messina c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce arrivò fino al Re; e il Reordinò a tutti i marinai che chi vedeva Cola Pesce gli dicesse che il Re gli voleva parlare. 
Un giorno, un marinaio, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando. – Cola! – glidisse. – C’è il Re di Messina che ti vuole parlare! 
E Cola Pesce subito nuotò verso il palazzo del Re. 
Il Re, al vederlo, gli fece buon viso. – Cola Pesce, – gli disse, – tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e cosa ci si vede! 
Cola Pesce ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alla Sicilia. Dopo un poco di tempo fu di ritorno. 
Raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie, ma aveva avuto paura solo passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo. 
– E allora Messina su cos’è fabbricata? – chiese il Re. – Devi scendere giù a vedere dove poggia. 
Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. Poi ritornò a galla e disse al Re: – Messina èfabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta. 
O Messina, Messina / Un dì sarai meschina! 
Il Re restò assai stupito, e volle portarsi Cola Pesce a Napoli per vedere il fondo dei vulcani. Colascese giù e poi raccontò che aveva trovato prima l’acqua fredda, poi l’acqua calda e in certi punti c’erano anche sorgenti d’acqua dolce. Il Re non ci voleva credere e allora Cola si fece dare due bottiglie e gliene andò a riempire una d’acqua calda e una d’acqua dolce. 
Ma il Re aveva quel pensiero che non gli dava pace, che al Capo del Faro il mare era senza fondo. 
Riportò Cola Pesce a Messina e gli disse: – Cola, devi dirmi quant’è profondo il mare qui al Faro, più o meno. 
Cola calò giù e ci stette due giorni, e quando tornò su disse che il fondo non l’aveva visto, perchéc’era una colonna di fumo che usciva da sotto uno scoglio e intorbidava l’acqua. 
Il Re, che non ne poteva più dalla curiosità, disse: – Gettati dalla cima della Torre del Faro.  
La Torre era proprio sulla punta del capo e nei tempi andati ci stava uno di guardia, e quando c’era la corrente che tirava suonava una tromba e issava una bandiera per avvisare i bastimenti che passassero al largo. Cola Pesce si tuffò di lassù in cima. Il Re aspettò un giorno, ne aspettò due, ne aspettò tre, ma Cola non si rivedeva. Finalmente venne fuori, ma era pallido come un morto. 
– Che c’è, Cola? – chiese il Re. 
– C’è che sono morto di spavento, – disse Cola. – Ho visto un pesce, che solo nella bocca potevaentrarci intero un bastimento! Per non farmi inghiottire mi son dovuto nascondere dietro una delle tre colonne che reggono Messina! 
Il Re stette a sentire a bocca aperta; ma quella maledetta curiosità di sapere quant’era profondo ilFaro non gli era passata. E Cola: – No, Maestà, non mi tuffo più, ho paura. 
Visto che non riusciva a convincerlo, il Re si levò la corona dal capo, tutta piena di pietre prezioseche abbagliavano lo sguardo, e la buttò in mare. – Va’ a prenderla, Cola! 
– Cos’avete fatto, Maestà? La corona del Regno! 
– Una corona che non ce n’è altra al mondo, – disse il Re. – Cola, devi andarla a prendere! 
– Se così volete, Maestà, – disse Cola, – scenderò. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi una manciata di lenticchie. Se scampo, tornerò su io; ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che io non torno più.

Gli diedero le lenticchie, e Cola scese in mare. 
Aspetta, aspetta; dopo tanto aspettare, vennero a galla le lenticchie.  
Cola Pesce s’aspetta ancora che torni.

Il viaggio tra le fiabe di Italo Calvino

La natura migratoria delle fiabe

Il viaggio tra le fiabe di Italo Calvino
La natura migratoria delle fiabe

Nell’introduzione al libro “Fiabe italiane, raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino”, l’autore parla di un viaggio tra le fiabe che nasce “da un’esigenza editoriale: si voleva pubblicare, accanto ai grandi libri di fiabe popolari straniere, una raccolta italiana. Ma che testo scegliere? Esisteva un “Grimm italiano?”.

Oltre la spinta iniziale della Casa editrice Einaudi, il viaggio tra le fiabe attrae Calvino, che parla di un “… salto a freddo, come tuffarmi….“ , per tutta una serie di motivazione che lo rendono l’autore più capace, per passione e stile, a realizzare la raccolta delle 200 fiabe italiane, a cui egli lavorerà dal 1954 al 1956, anno della pubblicazione. Tra lo stile di Calvino e la specificità del linguaggio della fiaba è possibile intravedere una sinergia che lo stesso Calvino ricorda. Ha scritto a riguardo (Sulla fiaba) “Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me n’ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione. La mia storia cominciava a essere assegnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell’inizio.”

Il viaggio nel mondo delle fiabe era sostenuto da un’altra forte motivazione, atta a vivere il lavoro, in cui si era immerso “disarmato d’ogni fiocina specialistica”, nei diversi aspetti specifici di studio, ma anche di raccolta, ascolto, trascrizione, comparazione. C’era in Calvino interesse e preoccupazione alla sopravvivenza della fiaba nel secolo dell’informazione, dell’informatica e dei computer. La fiaba, come forma narrativa fondata sull’oralità, avrebbe visto la sua esistenza entrare in crisi in un tempo in cui le innumerevoli versioni esistenti nei territori italiani non avessero più potuto passare “di bocca in bocca, di paese in paese”, con l’avvento della televisione che si apprestava a sostituire le fiabe tramandate da una generazione all’altra. La tradizione orale, inoltre, presto non avrebbe più potuto contare sulle ricerche e sugli studi del folklore che avevano da sempre mantenuto la memoria di quel patrimonio, anche attraverso le tante trascrizioni regionali.

L’opera monumentale dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm sulle fiabe tedesche, pubblicata nel 1812, aveva espresso la rivisitazione colta e letteraria di un patrimonio popolare per secoli caratterizzato dall’oralità. Allo stesso modo Calvino, in conformità con la raccolta dei Grimm, attinge a un patrimonio molteplice, disseminato in ogni regione italiana per realizzare un’opera che possa rappresentare tutti i tipi di fiaba di cui è documentata l’esistenza nei dialetti italiani, rappresentando così tutte le regioni italiane. Utilizza le raccolte dei folkloristi della seconda metà dell’Ottocento che avevano trascritto le narrazioni orali dalla viva voce del popolo. Calvino ha letto biblioteche di materiali, imparato tutti i dialetti italiani per cercare, tra le tante versioni della stessa fiaba, quella “più bella e più caratteristica e più impregnata dello spirito del luogo”. Del passaggio dai testi popolari alla elaborazione letteraria, Calvino riconosce il merito al popolo italiano che ha “un’arte di raccontare fiabe….. piena di felicità, di inventiva fantastica, di spunti realistici, di gusto, di saggezza”. In realtà il merito è anche di Calvino che per due anni ha saputo vivere in mezzo a boschi e palazzi incantati, e che ha saputo rendere accessibile a lettori italiani e stranieri ”il mondo fantastico contenuto in testi dialettali non del tutto decifrabili.”

Finito il viaggio tra le fiabe, Calvino scrive di essere stato confermato nell’unica certezza che lo aveva spinto al viaggio tra le fiabe, la sua forte convinzione che le fiabe sono vere «Sono prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto… ; l’amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; …..; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste» (Fiabe italiane, Introduzione).

Leggere le Fiabe italiane vuol dire avvicinarsi a un patrimonio di tradizioni e di cultura, capace di legare le generazioni e disegnare orizzonti di esperienza. Vuol dire riscoprire la realtà nel suo rapporto con la fantasia. Citando B. Bettelheim “La mia prima e ultima filosofia, quella a cui credo con incrollabile certezza, l’ho imparata nella mia stanzetta di bambino […] le cose a cui credevo di più allora, e a cui credo di più oggi, sono quelle che vengono chiamate fiabe”. (2008)

La fiaba è il luogo del meraviglioso, il racconto in cui realtà e fantasia, vita e immaginazione partecipano della stessa legittimità; la fiaba apre un’alternativa alla realtà, le sue strutture narrative sono capace di sovvertire l’ordine dei fenomeni e dei fatti umani senza alienare nell’evasione” (Gianni Rodari, “Favole al telefono”, Torino, Einaudi, 1975).

Le fiabe sono di natura migratoria: viaggiano nel tempo e nello spazio, attraverso secoli e continenti, ma anche attraverso gli strati sociali, descrivendo di volta in volta un itinerario di discesa o di ascesa, catturate nel circuito di una narrazione che si riproduce e trasforma incessantemente gli ascoltatori in narratori e viceversa”. (Italo Calvino, Sulla fiaba, Mondadori)

Italo Calvino: il tono fiabesco di un gigante della letteratura

Trasformazione della realtà e gusto del meraviglioso

1923-2023: il Centenario della nascita di Italo Calvino   

Il 15 ottobre 2023 ricorre il centenario della nascita di Italo Calvino.

Italo Calvino (Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 – Siena, 19 settembre 1985)  

Italo Calvino, scrittore, giornalista, romanziere, è stato, e continua a essere, un punto di riferimento della cultura italiana e internazionale. Ha vissuto il suo tempo come intellettuale e come autore impegnato verso i temi  civili e politici, tanto da essere riconosciuto come uno dei narratori italiani più importanti del secondo Novecento, in riferimento al romanzo, al racconto, al cinema, all’arte, al teatro. Ha considerato la letteratura nella sua dimensione creativa, come sperimentazione di linguaggi e come sfida. Ha stabilito correlazioni tra il linguaggio letterario e quello scientifico, toccando livelli profondi di originalità. In questo anno, in cui si celebra il centenario della sua nascita, è importante riflettere sulle idee che rappresentano l’altezza del suo pensiero, la sua sensibilità, la dimensione di gigante della letteratura come ha detto recentemente Tullio Pericoli in una intervista al TG3, curata da Luciana Parisi, il 4 agosto, “Italo Calvino è riuscito a farci vedere, attraverso le parole, delle cose invisibili”.

Consapevole dell’importanza delle parole, Calvino ne combatte la superficialità, l’ovvietà, privilegiando un uso dei termini sempre appropriato e preciso. Ha innovato la letteratura attraverso uno stile originale, lineare e pulito.

La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e del linguaggio (Italo Calvino, Lezioni americane, Leggerezza).

Invitato dall’Università di Harvard a tenere un ciclo di sei lezioni, tra il 1985 e il 1986, scelse temi incentrati sui concetti che considerava valori per la letteratura nel passaggio verso il nuovo Millennio. Lo scrittore propose parole capaci di rappresentare tematiche e qualità da conservare nel secolo imminente: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza. Non riuscirà a completare l’ultima lezione a causa della morte avvenuta nel settembre 1985, ma i suoi scritti vennero pubblicati postumi, nel 1988, con il titolo “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”. Un’opera capace di dimostrare l’imperativo categorico che Calvino, fin dagli inizi della sua attività, si era dato: rappresentare il proprio tempo e sfuggire l’opacità, la pesantezza del mondo anche attraverso una scrittura agile e “tagliente”.

Nelle ”Lezioni americane”, è dato avvicinarsi a Calvino come scrittore dell’immaginazione, della leggerezza, della fiaba, e ritrovare quegli elementi e quelle motivazioni che permettono di leggere un altro testo fondamentale della sua produzione, di molto antecedente: le Fiabe italiane, pubblicate nel 1956, da Einaudi, con il titolo “Fiabe italiane, raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino”.

Riguardo alla Leggerezza, Calvino, trattando della letteratura orale, vede nelle fiabe il volo in un altro mondo, scrive “dell’eroe delle fiabe, della privazione sofferta che si trasforma in leggerezza e permette di volare nel regno in cui ogni mancanza sarà magicamente risarcita.” (I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, pag. 32).

Nella lezione Rapidità scrive “Il mio lavoro di scrittore è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo. Nella mia predilezione per l’avventura e la fiaba cercavo sempre l’equivalente d’un’energia interiore, d’un movimento della mente. Ho puntato sull’immagine, e sul movimento che dall’immagine scaturisce naturalmente, pur sempre sapendo che non si può parlare d’un risultato letterario finché questa corrente dell’immaginazione non è diventata parola”.

Ancora, dai manoscritti preparatori alla elaborazione delle Lezioni americane “ … il narratore di fiabe fa appello alla memoria collettiva ma allo stesso tempo a un pozzo di oblio da cui le fiabe emergono come spogliate d’ogni determinazione individuale….Il mondo del molteplice da cui la fiaba affiora è la notte della memoria ma anche la notte dell’oblio….. perché chi ascolta la fiaba possa immediatamente identificarsi con essa, completarla con immagini della propria esperienza”.

Il racconto popolare parla della vita e nutre il nostro desiderio di vita”.

La lezione sulla tematica della Visibilità, è incentrata su una pedagogia dell’ immaginazione, riconoscendosi, Calvino, figlio della “civiltà delle immagini”. Ad inizio della stesura della conferenza cita un verso di Dante nel Purgatorio (XVII, 25) che dice “Poi piovve dentro a l’alta fantasia” e, di seguito, scrive “La fantasia è un posto dove ci piove dentro”. Per rispondere all’interrogativo da dove piovono le immagini nella fantasia, tratta dell’immaginazione e della narrativa fantastica e si chiede se sarà possibile la letteratura fantastica nel Duemila, in un tempo caratterizzato da “una crescente inflazione d’immagini prefabbricate”. Calvino è interessato al gusto del meraviglioso ereditato dalla narrativa letteraria.

 Per la Molteplicità Calvino individua la sfida propria della letteratura nel “saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo”.

Il libro Lezioni americane, considerato nel secolo ormai in corso, rappresenta un testo fondamentale per la letteratura e per capire le profonde trasformazioni della realtà che la letteratura stessa rappresenta. Le sei proposte si articolano, si intrecciano e si condensano in una sfaccettatura ampia di significati, con indicazioni capaci di orientare la pratica della scrittura e la pratica della vita. I valori propri della letteratura richiamano ai valori dell’esistenza e del futuro, con l’intelligenza e l’ironia che Italo Calvino ha saputo rappresentare e comunicare.

«Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.» (Italo Calvino, Lezioni Americane, Molteplicità).

La lezione di Rousseau

Tra natura e cultura: un progetto educativo possibile

Un nuovo anno scolastico è già iniziato: esperienze che si ripetono in situazioni consolidate di impegno nella comunità scolastica e, insieme, attività che richiedono slancio progettuale in contesti operativi sempre in trasformazione. La proposta di settembre, per questo nuovo cammino, vuole essere una sosta di riflessione, finalizzata a considerare la valenza di un grande nome dell’educazione, un “estremista” del pensiero filosofico e pedagogico. Un autore che potrebbe sembrare lontano dal nostro tempo, desueto nel linguaggio e nella ricerca, ma che è da ritenere attuale per spessore di analisi e dichiarazione di finalità.

Così iniziamo il cammino con la guida di Jean-Jacques Rousseau, filosofo, pedagogista svizzero (Ginevra, 28 giugno 1712 – Ermenonville, comune francese, il 2 luglio 1778), tra gli autori maggiormente rappresentativi del pensiero del XVIII secolo. Ci avviciniamo a lui come a una fonte critica della realtà che viviamo, considerando la sua teoria sotto gli aspetti sociali, politici e culturali. Rousseau è alla ricerca di una nuova dimensione antropologica, che persegue sollecitando prospettive legislative ed educative finalizzate all’uguaglianza tra gli uomini, visti come cittadini. L’educazione per Rousseau deve fondarsi sull’uomo come essere autonomo, non essere condizionata da norme sociali. L’insegnante educatore dovrà agire in modo da favorire l’evoluzione “naturale” dell’individuo senza forzature, utilizzando una metodologia rispettosa dell’evoluzione di ciascun individuo.

Il livello del suo coinvolgimento nel nostro tempo riguarda  un progetto pedagogico volto ad educare un uomo e un cittadino per una nuova società. Rousseau può essere letto per ritrovare la spinta a un modello culturale che richiama una nuova idea di individuo. Il grande pensatore sviluppa un romanzo pedagogico che narra il rispetto dell’educando nei diversi momenti che caratterizzano la sua età. Nell’ ”Emilio, o dell’educazione”, il testo in cui esplicita la sua visione educativa, egli anticipa l’idea di età evolutiva che solo molto più tardi troverà la sua affermazione scientifica.

L’opera, scritta nel 1762, afferma nelle righe di apertura: “Uscendo dalle mani dell’Autore delle cose tutto è bene, ma tutto degenera tra le mani dell’uomo. Egli costringe una terra a nutrire i prodotti di un’altra, … mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni” (Emilio, Libro primo, I, L’educazione e la natura).

Ecco allora la necessità di una educazione positiva, che metta l’alunno al riparo dalla corruzione della società, che promuova l’apprendimento nel contatto con le cose e gli elementi della natura. Una istanza educativa che manifesta un valore politico che Rousseau definisce in altri testi della sua ampia e articolata produzione.

Per rinnovare la società occorre rifondare l’educazione con il progetto di un “uomo nuovo”, un cittadino forte di una moralità che lo porti a coltivare interessi volti alla relazione con gli altri e alla reciprocità per il bene della collettività.

L’apparente opposizione natura-cultura è destinata quindi a risolversi perché Rousseau sostiene che la bontà naturale dell’individuo non si trova in opposizione alla realtà sociale, alla tradizione e alla cultura. Il destino di Emilio non è vivere lontano dalla società per poter sviluppare le qualità della sua personalità.

E’ l’educazione che permette all’individuo di vivere nella società senza essere travolto e sopraffatto da bisogni che annullano la sua identità. Con l’educazione l’individuo può conquistare la libertà del pensiero critico e l’autonomia dell’agire. Molti aspetti della trattazione di Rousseau ne fanno un pensatore pienamente calato nel suo tempo e lontano dalle istanze della nostra contemporaneità, tuttavia l’affermazione della centralità del bambino lo rendono interessante e coinvolgente. Altro principio fortemente significativo riguarda l’attenzione all’educazione non delle parole ma delle cose che favoriscono la scoperta autonoma del modo da parte dell’alunno che apprende. Emilio è un modello, un allievo ideale ma non per questo inconsistente.  A Rousseau, nella veste di precettore, interessa dimostrare come Emilio possa diventare il cittadino ideale, personalità capace di rappresentare una nuova generazione, una generazione capace di interpretare e dare risposte alle urgenze anche del nostro tempo, in termini di competenze di cittadinanza responsabile e consapevole.

Uomini, siate umani, è il vostro primo dovere; siate umani verso tutte le condizioni, verso tutte le età, verso tutto ciò che non è estraneo all’uomo. Quale saggezza può mai esistere fuori dell’umanità? Amate l’infanzia; favoritene i giuochi, le gioie, le amabili inclinazioni. Chi di voi non ha rimpianto talvolta questa età in cui il riso non si spegne mai sulle labbra e l’anima è sempre serena?” —  (Jean Jacques Rousseau, in “Emilio o dell’educazione“)

Don Milani, cento anni dalla nascita

Lettera a una professoressa

Sono passati 100 anni dalla Nascita di Don Milani, ti proponiamo una serie di articoli dedicati a questo grande protagonista del mondo della pedagogia e dell’educazione. Ti sei perso la prima parte? Leggila qui!

E ora… buona lettura!

Barbiana, Sant’Andrea di Barbiana, è una pieve sul monte dei Giovi nel Mugello, a cinquecento metri di altitudine. Barbiana non ha nulla che possa rappresentare un piccolo paese, è solamente una canonica povera tra case sperse, abitate da poche decine di anime, pastori e contadini che vivono senza acqua e senza luce. Ancora oggi si può vedere qualche cipresso e un piccolo cimitero. Don Milani ci arriva salendo per una mulattiera il 12 settembre 1954, quando viene assegnato a Barbiana alla morte del parroco di San Donato, Comune in provincia di Firenze, sua prima destinazione come sacerdote a fianco dell’anziano don Pugi. Per don Milani è chiaro da subito che non sarà la scuola di Stato a permettere ai figli dei poveri mezzadri di imparare a leggere e a scrivere, i figli dei contadini che abitano quel territorio devono soprattutto badare alle pecore e lavorare nei campi.

Così nasce a Barbiana, in modo radicale e coerente con i principi del Priore, una Scuola laica e popolare.

Don Lorenzo Milani considera la scuola uno strumento per elevare gli ultimi e l’insegnamento un atto di giustizia. Il priore di Barbiana non si pone come precursore di un metodo: nella scuola di Barbiana non c’erano voti, pagelle o bocciature, l’atmosfera era di libertà, con piani di lavoro individuali pensati in “gruppo” per insegnare la parola come strumento di relazione. Una scuola senza orari, dove si andava anche la domenica.

LETTERA A UNA PROFESSORESSA

Lettera a una professoressa dichiara apertamente il fine di questa scuola, che salva i ragazzi dall’alternativa di ripulire dal letame le stalle: una scuola “schierata” socialmente con i diseredati, gli oppressi e gli ultimi in nome dell’eguaglianza. In questo libro, fonte inesauribile di progettualità educativa, sono proposte le riforme che possono realizzare il sogno dell’eguaglianza:

1. Non bocciare.
2. A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno.
3. Agli svogliati basta dargli uno scopo.

Don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967

 Lettera a una professoressa è una pubblicazione scritta in modo collettivo, pubblicata dalla Scuola di Barbiana nel maggio 1967, un testo che può es­sere considerato il compendio, il manifesto di don Milani e dei suoi alunni contro la scuola classista, non certamente inclusiva, non pensata per i po­veri. Don Lorenzo muore nel giugno 1967, a 44 anni, a casa di sua madre dove si era trasferito quando l’incalzare della malattia ai polmoni aveva reso necessarie cura e assistenza continue, quando l’uso della parola era diven­tato impossibile. Quelle parole che hanno costituito il nucleo della pedago­gia di don Milani, risorsa per confrontarsi con la realtà, per dialogare, quelle parole che egli presentava ai suoi ragazzi per farle vivere, analizzarle, se­guirne lo sviluppo e le trasformazioni in una scuola “aderente” alla realtà sociale e culturale.

Lettera a una professoressa presenta una scuola dove la comunicazione supera i confini geografici di Barbiana, per intercettare, attraverso il giornale e la corrispondenza, oltre il libro di testo, la possibilità di riscatto dall’analfabetismo e dall’ignoranza. La didattica di don Milani è ispirata dalla fedeltà al Vangelo e dalla passione educativa, privilegia, oltre programmi predefiniti e formalismi, la parola e il dialogo. La pedagogia di Don Milani è una pedagogia della cooperazione che mira a educare gli alunni sul piano civico, tramite la conquista della lingua, che rende possibile partecipare attivamente alla società. Infine, è una pedagogia che privilegia la presa di coscienza della propria dignità e la responsabilità nei confronti del prossimo, specie se più debole. La strategia didattica è quella del mutuo insegnamento per cui i ragazzi più grandi insegnano ai più piccoli, chi sa di più a chi sa di meno.

L’orizzonte dell’operare di don Milani è la scuola come strumento di giustizia. Il Vangelo e la Costituzione sono i parametri di quella coerenza che rendono don Lorenzo «Trasparente e duro come il diamante, doveva subito ferirsi e ferire», secondo la definizione che di lui ha dato don Raffaele Bensi, suo padre spirituale, dalla conversione alla morte, unico custode del segreto della sua fede.

“Camminare” nell’arte e nella filosofia

I super poteri del cammino

Nell’ambiente circostante, inteso in tutta la sua complessità, ci si può orientare “camminando”, per superare fattori di stress, recuperando il piacere di una passeggiata tranquilla, in modo organizzato o libero, velocemente oppure lentamente, ripiegati sui pensieri più intimi o protesi verso la natura e lo spazio con il desiderio di cogliere quanto di sorprendente offrono.

Nel camminare andiamo sempre incontro al nuovo e all’imprevisto, all’impatto con un mezzo altro da noi, rappresentato da una molteplicità di fattori e, al tempo stesso, ci misuriamo con la resistenza di quell’insieme psicobiologico che è dato dal nostro corpo, dal nostro vissuto di idee, emozioni e sensazioni. Soprattutto l’essere soli o insieme ad altri può cambiare la prospettiva del camminare e la direzione del procedere.

Mi piacerebbe camminare con te lì per scoprire se guardiamo le cose allo stesso modo” (Vincent Van Gogh)

Van Gogh amava camminare. A Londra impiegava tre quarti d’ora per andare al lavoro. Passeggiava per esplorare la città e la campagna alla ricerca di soggetti da dipingere. Dal Belgio camminò per una settimana fino a Courrières, nel nord della Francia per cercare le tracce di Jules Breton e di altri artisti.

Ha scritto Ippocrate, medico greco considerato il padre della medicina occidentale, che “il camminare è la migliore medicina”. Aristotele insegnava camminando, tanto che i suoi allievi erano i peripatetici o colonnati dal termine greco di riferimento, poiché il Peripato era la parte del giardino del Liceo di Atene in cui Aristotele teneva solitamente le sue lezioni.

Socrate dialogava e discuteva mentre camminava e di Kant sappiamo che gli abitanti di Königsberg, la sua città, regolavano gli orologi al passaggio del professor Kant, all’andata o al ritorno dalla sua passeggiata quotidiana.

Tutti i più grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina”. (Friedrich Nietzsche)

Sicuramente il camminare è l’attività fisica più naturale e spontanea per ogni individuo che possa spostarsi rispondendo al bisogno primario di raggiungere uno stato di benessere fisico, mentale ed emotivo.

“Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi” (Italo Calvino)

Camminare permette di ritrovare una nuova armonia, di incontrare con leggerezza la propria interiorità, trasformando conflitti e inquietudini, ma è anche un’opportunità di abitare in modo nuovo il mondo, di stare con altri individui, insieme ai quali si è scelto di condividere il percorso.

Assumere il camminare come paradigma di resilienza significa osservare e analizzare le forme possibili del miglioramento del benessere individuale. Superare traumi, eventi stressanti, situazioni di disagio, significa intraprendere un cammino che possa rendere più forti le capacità di essere “resilienti”, per diventare consapevoli delle proprie vulnerabilità, motivati ad essere attivi e creativi nel risolverle. Ritorna l’idea del cammino come terapia e come cura, da considerare sia a livello simbolico sia a livello operativo e funzionale.

“Camminare è, ad ogni passo, un incontro con noi stessi”(R. Tagore)

Se una definizione di resilienza prevede la capacità di non soccombere di fronte alla difficoltà che si possono incontrare durante il percorso di vita, intesa in tutte le poliedriche esperienze di studio, di lavoro, di socialità, ecco che la qualità del cammino può fare la differenza.

Un cammino di qualità è così un andare creativo, aperto alle possibilità che la strada lascia intravedere. A livello di formazione si tratta di sviluppare capacità di attingere costantemente a nuove risorse, di trovare soluzioni a nuovi problemi. Il termine resilienza indica appunto la capacità di reagire “tornare a saltare” dal latino resilio, che nel linguaggio fisico significa la resistenza che i metalli oppongono agli urti.

“Viandante, il sentiero non è altro che le orme dei tuoi passi. Viandante, non c’è sentiero, il sentiero si apre camminando”. (Antonio Machado)

Don Milani, un nuovo modo di fare scuola

La sfida del suo messaggio

“Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola. Bisogna avere le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti ma schierati. Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero ad un livello superiore. Non dico a un livello pari dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più di tutto.” (Don Milani in Esperienze pastorali).

Don Lorenzo Milani (Firenze27 maggio 1923 – Firenze26 giugno 1967), di cui ricorrono cento anni dalla nascita, è stato un prete “scomodo”, un riformatore, un pacifista, un pedagogo e un pedagogista. Ad alimentare il suo essere sacerdote non furono esclusivamente fede e obbedienza, ma giustizia.

“La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale. La distinzione in classi sociali non si può dunque fare sull’imponibile catastale, ma su valori culturali”, scrive il priore di Barbiana in Esperienze pastorali.

La stessa idea di giustizia è alla base della sua vocazione per la scuola, intesa come strumento per elevare gli ultimi. Grado di cultura e funzione sociale sono elementi interconnessi, poli di un agire pedagogico e di un impegno sociale. Scuola, giustizia, Vangelo e Costituzione: questi sono i riferimenti che permettono di delineare la figura di un uomo riconosciuto come grande personaggio del Novecento, figura esemplare, capace di alimentare speranza e passione nel nostro tempo. La sua vita è tutta nelle sue scelte, fuori dai tracciati che le sue origini potevano determinare.

Dal libro di Francesca Banchini e Silvia Mannelli “Don Milani, il Maestro” (Raffaello, 2022, pagg. 63-64) possiamo leggere “Don Lorenzo era nato in una famiglia molto ricca che possedeva una bellissima casa sui viali di Firenze, una villa al mare a Castiglioncello e una tenuta nella campagna di Montespertoli, che si chiamava La Gigliola: qui c’erano addirittura dei campi da tennis privati. Lorenzo e i suoi fratelli, Adriano ed Elena, da bambini ebbero anche la possibilità di assistere ai primi cartoni animati. Amavano mobili lussuosi, automobili, servitù, migliaia di libri e persino una statua greca, l’Apollo Milani, scoperta da uno dei nonni di don Lorenzo, il celebre archeologo fondatore del museo etrusco di Firenze […] il bisnonno di don Lorenzo, Domenico Comparetti, era un importantissimo studioso di civiltà antiche ed era stato anche senatore. Sapeva ben diciannove lingue ed era un accanito anticlericale […] la madre di do Lorenzo, Alice Weiss, apparteneva a una famiglia ebrea che si era molto arricchita grazie al commercio di carbone alla fine dell’Ottocento e aveva ricevuto un’ottima educazione a Trieste, dove era vissuta per diversi anni. Suo padre era amico di un importante scrittore italiano che viveva in quella città, Italo Svevo, e l’insegnante di inglese di Alice era… James Joyce.”

Don Lorenzo, figlio di una famiglia colta e benestante, ha impiegato la propria esistenza per dare senso a quella degli altri, a lui importava dei suoi ragazzi, poveri e senza futuro, che trascorrevano la vita su un monte nemmeno segnato sulle carte geografiche, dove non c’erano né acqua corrente né elettricità, dove nemmeno la speranza aveva dimora. La povertà che ha incontrato a Sant’Andrea di Barbiana, in una canonica povera a cinquecen­to metri di altitudine, con quaranta anime sparse sul Mugello, ha fatto nascere in lui una coscienza sociale che gli ha permesso di capire le differenze profonde tra le opportunità in cui era cresciuto e la misera materiale e intellettuale del popolo.

Grazie a Don Milani tanti ragazzi, tanti genitori, tanti politici, tanti intellettuali hanno scoperto un modo nuovo di fare scuola, hanno condiviso un concetto di istruzione che pone come obiettivo primario la consapevolezza di impegnarsi per una cittadinanza attiva e responsabile, a partire dall’apprendimento della parola oltre ogni ambizione di competizione e di successo.

Barbiana, da luogo marginale e sperduto, è oggi simbolo di impegno per la legalità, per una scuola migliore, per un individuo capace di responsabilità verso gli altri. Barbiana è un luogo indissolubilmente legato alla testimonianza di vita di don Lorenzo Milani, alla sua proposta radicale e autentica. La lettura del suo trasferimento come “… un prete isolato è inutile”, don Lorenzo l’ha sovvertita, il suo trasferimento è ancora la sfida per porre radici nei valori della dignità umana e sociale.

Le intelligenze utili ai cittadini del futuro

Howard Gardner e la teoria delle intelligenze multiple

Dobbiamo a Howard Gardner un concetto innovativo di intelligenza che ha aperto la riflessione psico-pedagogica nella direzione di un nuovo concetto di educazione, a partire dalla domanda: “Possono i test aiutarci a conoscere le capacità umane?”

Howard Gardner, psicologo cognitivo, nato nel 1943 in Pennsylvania (USA), ha condotto il suo lavoro di ricerca ridimensionando e sotto molti aspetti annullando il valore dei test, nella convinzione che gli stessi non possono esaminare le capacità umane, analizzate alla luce di un concetto multidimensionale dell’intelligenza. Nel 1983 pubblicò un testo che lo rese famoso in tutto il mondo “Frames of the Mind. The Theory of Multiple Intelligences”, in italiano “Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza”.

La gran parte della gente, quando usa la parola intelligenza pensa che ci sia una singola intelligenza con la quale si nasce e che non si può cambiare molto. Si attribuisce un gran valore a quello che si chiama un IQ test, una serie di domande alle quali si risponde bene o meno bene. Io penso che il test del quoziente intellettivo sia una misura ragionevole del rendimento delle persone a scuola, ma esso offre una visione molto ristretta di come sia l’intelletto umano una volta usciti dalla scuola. Nel mio lavoro ho gettato via i test perché penso che essi non possano esaminare l’intero spettro delle capacità umane” (Gardner, 1997).

Gardner ha contribuito a scardinare certezze e abitudini consolidate nell’approccio al concetto di intelligenza offrendo, soprattutto agli insegnanti, la possibilità di attuare una didattica inclusiva e diversificata secondo le capacità di studenti e studentesse, per valorizzare attitudini, stili cognitivi, approcci personali alla conoscenza e ai saperi disciplinari. La classe come struttura monolitica, l’insegnamento basato sulla lezione frontale non possono rispondere a bisogni di formazione degli studenti, bisogni sempre più articolati e differenziati.

  

SETTE TIPI DI INTELLIGENZA… ANZI NOVE!
La Teoria delle Intelligenze Multiple di Gardner accetta l’ipotesi che non esista una sola forma, misurabile, di intelligenza ma forme diverse della stessa, ognuna con sue peculiari caratteristiche. Nel tempo l’autore ha rivisto la sua concezione, apportando modifiche e integrazioni a una teoria basata inizialmente su sette forme di intelligenza che possono essere così individuate:

  • Intelligenza Linguistica: “pensare con le parole e riflettere su di esse”.
  • Intelligenza Logico-matematica: “pensare con i numeri e riflettere sulle loro relazioni”.
  • Intelligenza Musicale: “pensare con e sulla musica”.
  • Intelligenza Visuo-spaziale: “pensare con immagini visive e fare elaborazioni su di esse”.
  • Intelligenza Corporeo-cinestetica: “pensare con e sui movimenti e i gesti”.
  • Intelligenza Interpersonale: “avere successo nelle relazioni con gli altri”.
  • Intelligenza Intrapersonale: “riflettere sui propri sentimenti, umori e stati mentali”.

A queste sette rappresentazioni dell’intelligenza, negli anni, Gardner ha aggiunto l’Intelligenza Naturalistica, ovvero il “Pensare alla natura e al mondo che ci circonda” e l’Intelligenza esistenziale, vale a dire il “Pensare alle questioni etiche ed esistenziali”, tutti tratti del pensiero corrispondenti ai differenti approcci alla complessità del nostro tempo.

 

TEORIE INTELLIGENZE MULTIPLE: COME È UTILE ALLA SCUOLA?
Per ogni individuo possono essere riconosciuti i vari aspetti dell’intelligenza, in forme più o meno equilibrate, integrate ed omogenee, ma possono esserci individui che presentano un profilo in cui risultano e addirittura sono esaltate solo forme particolari d’intelligenza. Così la scuola è tenuta a proporre un rapporto con il sapere capace di guidare alla consapevolezza del modo personale di ogni singolo studente di apprendere, per evitare discriminazioni nella mancanza di opportunità di sviluppare attitudini e talenti. Una concezione astratta e monolitica/rigida dell’intelligenza dopo Gardner non è più accettabile e, soprattutto, non è più strategica rispetto ad un concetto di educazione inclusiva e dinamica.

Il rapporto con il sapere presuppone la consapevolezza del proprio stile cognitivo per chi apprende e la necessità, per l’insegnante, di dominare una pluralità di metodologie didattiche utili a favorire l’integrazione e la fluidità nei processi di insegnamento-apprendimento.

 

QUALI INTELLIGENZE SARANNO UTILI AI CITTADINI DEL FUTURO?
Il valore della ricerca di Gardner non riguarda tanto la riflessione sulla validità dei test che misurano le capacità intellettive, quanto il riconoscimento che tutte le tipologie di intelligenza sono importanti. Il variare delle tipologie riconosciute non deve essere ritenuto importante rispetto al numero delle “intelligenze” catalogate, quanto rispetto agli assi della ricerca di Gardner che hanno il futuro come orizzonte di indagine e comparazione. Quali intelligenze saranno utili per i cittadini del futuro? I grandi cambiamenti del nostro tempo richiedono approcci multiformi alle tematiche disciplinari e interdisciplinari, capacità di problem solving rispetto alla necessità di affrontare la complessità e l’imprevedibilità. Le trasformazioni che interessano la vita sociale, le problematiche del lavoro e dell’identità, possono essere vissute consapevolmente e responsabilmente quanto più la scuola opera con percorsi efficaci per sviluppare nelle giovani generazioni capacità di adattamento e creatività, alimentando il potenziale cognitivo proprio a partire da una rinnovata concezione dell’intelligenza.

Così l’attenzione di Gardner alle diverse tipologie di intelligenza, nelle dimensioni intrapersonale, interpersonale, naturalistica ed esistenziale offre un contributo all’individuazione di competenze quali il saper esprimere sentimenti ed emozioni, avere una immaginazione attiva, avere attitudine a trasformare oggetti, avere sensibilità verso la musica, saper lavorare in modo cooperativo. L’intelligenza linguistico verbale deve trovare una scuola attenta a lavorare sulla comunicazione verbale e non verbale, così l’intelligenza logico-matematica deve potersi esprimere nel riconoscimento delle relazioni e delle connessioni. L’evoluzione della ricerca di Gardner verso le dimensioni che riguardano la Natura e l’Esistenza sottolineano la necessità che lo studio dell’intelligenza umana sia vitale per la crescita dell’individuo e delle comunità. Saper riflettere sulle tematiche ambientali ed esistenziali rappresenta al tempo stesso una competenza e un’urgenza per far fronte alle sfide del nostro tempo. Considerare tutti gli aspetti della personalità degli individui in formazioni vuol dire prestare interesse agli atteggiamenti, alle interazioni sociali, alle reazioni emotive come interdipendenti rispetto alle forme di intelligenza analitica, creativa, operativa e in sinergia con la capacità di utilizzare in modo responsabile le risorse della natura.