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Autore: Paola Valente

Paola Valente vive a Vicenza, e ha insegnato nella Scuola Primaria. Ha scritto per Raffaello numerosi libri per ragazze e ragazzi, tra cui “La Maestra Tiramisù”, bestseller di collana, in più, tanti racconti dedicati alla Educazione alla Cittadinanza.

Parità di diritti, zero stereotipi, libertà di scelta

Il lento cammino delle pari opportunità

Il 16 giugno 1963 Valentina Tereshova partì per una missione nello spazio. Fu la prima donna del mondo ad affrontare una simile avventura. In Italia, la prima donna a volare nello spazio è stata Samantha Cristoforetti la cui missione iniziò nel 2014.

L’espressione “primo uomo”, riferita a un avvenimento particolare, denota una persona di sesso maschile che compie per la prima volta in assoluto un’impresa memorabile. La “prima donna” invece insegue un numero consistente di uomini che l’hanno preceduta nella storia di una particolare disciplina.

La prima donna a laurearsi fu Elena Lucrezia Cornaro che conseguì la laurea in filosofia a Padova nel 1678. Nel 1900 fu ammessa alle Olimpiadi di Parigi la tennista Charlotte Cooper, prima donna a partecipare alle competizioni. La prima donna che diventò medico fu Elizabeth Blackwell che conseguì il titolo nel 1949 negli Stati Uniti. La prima donna a diventare primo ministro fu Sirimavo Bandaranaike, originaria dello Sri Lanka, nel 1960. La prima donna in Italia a diventare ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale fu Tina Anselmi nel 1976. Si può continuare così, allungare l’elenco con figure più o meno curiose e interessanti di donne che comunque furono prime tra le persone del loro sesso, ma che arrivarono sempre molto dopo gli uomini.

Lo stupore e l’interesse che suscita l’avvento delle “prime donne”, cui si dedicano pubblicazioni e convegni, se da un lato ha il merito di illuminare la vita di persone eccezionali, dall’altro potrebbe rinforzare lo stereotipo dell’eccezionalità di queste donne. Infatti, quando la parità dei diritti e delle opportunità sarà davvero raggiunta, non sarà più necessario sottolineare il sesso di chi ha compiuto un’impresa significativa. Se “il primo uomo” è primo fra tutti e tutte, la “prima donna” è prima solo fra le donne ed è questo il limite culturale, narrativo e linguistico che impedisce un ulteriore passo avanti nell’equiparazione sociale dei sessi.

Si presume che le “prime donne” siano state spinte ad affrontare difficoltà e pregiudizi per una sorta di ribellione a un destino predeterminato, ipotesi probabile ma riduttiva. In realtà, esse seppero coltivare e realizzare un desiderio che apparteneva solo a loro, a dar corpo a un sogno profondamente personale che avevano riconosciuto dentro di sé. Non erano solo “bambine ribelli”, ma anche e specialmente persone appassionate, con uno scopo che valorizzava la loro vita. L’educazione delle bambine, delle giovani donne raramente prevede proprio questo obiettivo fondamentale: aiutare a riconoscere e a realizzare un’aspirazione per piacere a se stesse prima che agli altri.

Lo stereotipo della donna come ancella, come figura con un ruolo fissato dal sesso di appartenenza, si determina quando il piacere agli altri (e specialmente agli uomini) diviene lo scopo dell’esistere. Se è vero che anche gli uomini possono sviluppare delle insicurezze legate alla necessità di compiacere, essi possono tuttavia avvalersi di un falso primato sottilmente sotteso di sesso dominante al quale centinaia di anni di educazione in tal senso li hanno abituati. Mentre un uomo sufficientemente agguerrito e motivato può realizzare se stesso in quanto persona, una donna spesso si vede costretta ad abdicare alla propria natura e ad assumere caratteristiche maschili per raggiungere, con molta più fatica, ruoli sociali e lavorativi di alta professionalità e responsabilità. Per un uomo, l’accusa di mostrare tratti femminili nel carattere e nel comportamento, significa una diminuzione di valore. Al contrario, tratti di carattere prevalentemente attribuibili ai maschi sono considerati per le donne un valore aggiunto. Lo testimoniano il linguaggio e le consuetudini: dire a un bambino che è “una femminuccia” significa sminuirlo; dire a una bambina che è “un maschiaccio” significa riconoscere bonariamente la sua capacità di imporsi e la sua forza. “Femminuccia” risulta offensivo, “maschiaccio” invece è un termine accettabile che perfino aggiunge un certo valore a una bambina considerandola indomita, coraggiosa e anticonformista.

L’essere umano appartiene al mondo naturale, è collegato con tutte le specie del nostro pianeta. Un darwinismo spinto lo equipara agli insetti, ai pesci, ai lupi: per gli animali vige la legge del più forte e solo i più forti sopravvivono; non sono importanti gli individui se non in quanto appartenenti a una specie cui assicurare la conservazione; i ruoli riproduttivi sono quasi sempre fissi. Nelle specie ad alto tasso di socialità come le api e le formiche, gli individui che lavorano sono privi di sesso. L’essere umano, tuttavia, rappresenta un unicum: è capace di cambiare il proprio ruolo all’interno della società, riconosce in sé negli altri una parte spirituale che va oltre le leggi della natura, un valore individuale che lo spinge, quando esprime il massimo della propria moralità, a proteggere i suoi simili e a riconoscere il valore fondamentale della vita di ciascuno. è un percorso complesso, spesso contraddittorio, in cui non sempre l’altissimo obiettivo della giustizia e dei diritti umani è perseguito e conseguito. Piegare gli individui a un ruolo prefissato dal sesso, dal denaro e dal potere è storia antica e contemporanea.

L’imitazione distorta delle leggi naturali comporta aberrazioni di cui si ha notizia recente: in India, secondo un reportage di France Tv, nel distretto della produzione dello zucchero di canna, “il 36% delle lavoratrici agricole sono senza utero dopo aver subito un intervento di ablazione totale, spesso anche in giovane età, per trovare un’occupazione ed essere più produttive” (sul quotidiano La Stampa, 19 maggio 2022). Le donne vengono private degli organi genitali interni per eliminare i problemi legati al parto e ai dolori mestruali in modo da aumentare la produttività in condizioni di lavoro durissime che prevedono dieci ore sotto il sole cocente e un solo giorno di riposo al mese. Ecco degli esseri umani trasformati in formiche operaie in nome del profitto.

Dall’altro canto, anche le leggi religiose e culturali possono comportare aberrazioni. L’infibulazione menoma gravemente le donne con l’escissione degli organi genitali esterni per impedire i rapporti sessuali prima del matrimonio.

Nel 2021, in Italia, 103 donne sono state assassinate dai compagni (dati Istat) mentre dall’ inizio del 2022 le vittime di femminicidio sono state 21. Quasi sempre il motivo degli omicidi riguarda il fatto che la donna desiderava separarsi dal compagno.

Se è vero che la storia racconta di orrori, oppressione, sfruttamento, si può affermare che, a farne le spese, sono state più le donne che gli uomini. Eppure e per fortuna un po’ alla volta, con regressioni, errori, difficoltà, si sta affermando una mentalità diversa per cui bambine e donne sono destinatarie di una riflessione rispettosa e profonda. Basta sfogliare i libri destinati all’infanzia e all’adolescenza a partire da quelli pubblicati nel primo Novecento a quelli contemporanei per comprendere quanta strada si sia percorsa per superare gli stereotipi e conquistare la parità dei diritti. C’è ancora strada da fare, ci sono pregiudizi da superare, stereotipi da distruggere. Si può fare con la consapevolezza e con l’educazione. Donne e uomini insieme possono cambiare le filastrocche, realizzare se stessi, mettere al mondo figli amati a cui sia garantita la ricerca della felicità.

Educare alla pace

Per contrastare ed evitare i conflitti

Aprire la riflessione su conflitto, disponibilità al confronto, relazione educativa, vuol dire riflettere su temi cruciali e irrinunciabili che possono aiutare a trovare risposte nell’impegno a orientare lo sviluppo armonico e integrato della personalità nei contesti educativi, in un tempo di grandi emergenze fatte di guerre, sopraffazioni e violenze, in cui sembra smarrirsi il concetto stesso di umanità.

La parola conflitto è una parola che sentiamo immediatamente avversa, una parola negativa che richiama la guerra, gli stermini che attanagliano in questi giorni un’umanità aggredita, oppressa, a cui sono negati i diritti fondamentali. Ad esplorare la portata vasta di questa parola, considerandone la valenza articolata per chi si interessa di educazione, ecco la possibilità di accedere a un concetto che riguarda l’educazione alla Pace come progetto per contrastare ed evitare i conflitti.

Pensare il conflitto vuol dire tenere insieme e distinguere la dimensione di tensione che provoca contrasti interiori nel soggetto, pulsioni contrapposte che inducono sofferenze a livello psichico, situazioni di antagonismo a livello di gruppi sociali, conflitti di interesse che generano opposizioni e degenerano in lotte e scontri relazionali.

Così i conflitti legati alla conquista della supremazia economica e politica possono riguardare non solo gruppi ristretti ma intere popolazioni e diventare guerre fratricide e di sterminio.

È indispensabile e urgente, sul piano umano e comunitario, riflettere sul significato dell’essere in opposizione per scoprire i percorsi di esperienza positiva a livello di relazioni tra le persone, soprattutto tra i soggetti in formazione, nei contesti di lavoro, di apprendimento, di vita sociale.

Situazioni conflittuali sono sempre situazioni di disagio, di contrasto, che rischiano di diventare insanabili e che impediscono la realizzazione di un benessere da condividere.

Vogliamo perciò tentare di esplorare il concetto di “conflitto” per trarne armi di pacificazione, strumenti di costruzione di relazioni positive, efficaci a livello emotivo, cognitivo e sociale.

 

Quale ruolo può assumere il conflitto in educazione? Come trasformare un’esperienza conflittuale in un’esperienza di crescita umana? Si può insegnare e apprendere a litigare? Si può far fiorire la pace negli individui in formazione?

Quando bambine e bambini litigano, è possibile aiutarli a diventare consapevoli della situazione di conflitto in cui agiscono?

“Io non vinco tu non perdi” può essere un obiettivo? La pratica della didattica a distanza, le trasformazioni nella gestione della classe, correlate all’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia per covid-19, hanno modificato l’esperienza del litigio e del conflitto nell’età evolutiva, rendendo queste esperienze maggiormente problematiche e limitanti.

Dalle ricerche in campo psicologico sappiamo che il conflitto è determinante nei processi di cambiamento, di adattamento e sviluppo perché riguarda sempre la dimensione comunicativa e l’opportunità di scambio sociale e di dialogo. Il conflitto può essere gestito per mezzo di una molteplicità di strategie che permettono riconoscere i motivi che generano il conflitto stesso, sempre legati all’incompatibilità di obiettivi considerati non reciproci.

I bambini, come gli adulti, litigano per il possesso di beni e oggetti, per la non accettazione di comportamenti e opinioni, per la violazione di regole definite. L’opposizione, anche la più rigida e la più insanabile, può, tuttavia, essere negoziata e risolta, senza che l’opposizione termini per vittoria di una parte sull’altre o per abbandono e rinuncia ai propri obiettivi.

Ecco allora l’importanza di un contesto comunicativo aperto, in cui la comprensione delle ragioni reciproche, le argomentazioni, le spiegazioni, possano condurre alla risoluzione del contrasto come assunzione di un nuovo punto di vista condiviso.

Pratiche molto efficaci, in uso nella scuola e nelle situazioni formative in genere, riprendono i principi dell’ascolto attivo, della negoziazione, della valorizzazione dell’intelligenza emotiva e della capacità di argomentare. Per questo a scuola risulta molto importante il ruolo dell’insegnante, che può aiutare le alunne e gli alunni ad accrescere la fiducia in loro stessi, non litigando e aggredendo ma dialogando, forti di mature competenze linguistiche e modalità comportamentali in cui ascoltare, comprendere, rispettare siano abilità acquisite e sperimentate anche in modo laboratoriale.

Si può imparare a litigare attraverso situazioni conflittuali che sono tali a livello di metodo, per maturare la consapevolezza della situazione stessa e del proprio possibile intervento.

 

Gli alunni e le alunne devono apprendere a parlare del litigio che li ha coinvolti (“È mio!”, “Ho preso prima io il pallone!”, “Hai sbagliato tu!”), per diventare capaci di ritrovare l’accordo con gli amici. Il ruolo degli adulti non diventa un aiuto significativo se si impone con una soluzione dall’alto o con la ricerca del colpevole.

Poiché ogni litigio riguarda sempre le relazioni interpersonali, queste relazioni devono essere considerate finalità di costruzione e ricostruzione di un rapporto sereno, collaborativo e riflessivo.

Ogni conflitto chiama in causa la volontà e l’intenzionalità di modificare una situazione e deve attivare la motivazione a ritrovare quel clima di fiducia e di serenità compromesso. Si tratta di cambiare una situazione, di ristabilire un equilibrio che riguarda non solo il rapporto con gli altri ma anche il rapporto con se stessi.

A scuola dobbiamo scegliere il valore della pace come tempo e spazio di educazione.