L’importante è che qualcuno MI VEDA
Internet e bambini: riflessioni di una maestra
Ho atteso qualche giorno prima di esprimere quello che provo e penso in relazione alla tragedia di Antonella, la bambina di Palermo, per rispetto, per angoscia, perché avevo bisogno di un momento di silenzio interiore per riflettere.
Insegno da molti anni e conosco i bambini. Ormai è diventato una specie di sesto senso. Li fiuto, sento le loro emozioni, le assorbo, le percepisco in una specie di osmosi.
I bambini sereni sono morbidi, hanno occhi morbidi e sorrisi naturali, si muovono con calma, accettano di perdere al gioco, non sgomitano per la fila, conversano, si arrabbiano, se è il caso, ma poi ritornano a sorridere quasi subito, non richiedono l’attenzione continua della maestra, se sbagliano si dispiacciono ma poi si correggono e riprendono a lavorare. I bambini sereni, qualunque sia il loro carattere, timidi, intraprendenti, grossolani o delicati, hanno intorno una nuvola dolce, come se fossero avvolti nei marshmallow.
E poi ci sono gli altri. I bambini complicati. Quelli si portano dietro un alone di fatica. Un po’ come Pig Pen dei Peanuts, lo ricordate? Pig Pen camminava avvolto da una nuvola di polvere che lo seguiva ovunque. Ebbene, questi sono i bambini che non riescono a stare fermi, che provocano, che litigano durante i giochi, che non accettano le sconfitte, che piangono di rabbia o che mascherano il loro dolore con atteggiamenti sfidanti, che cercano di attirare l’attenzione in tutti i modi. Bambini il più delle volte sofferenti, che confondono perché spesso presentano agli insegnanti una facciata spavalda e, se non stai attento, puoi cascare nella loro trappola. Che alla fine è quello che vogliono, perché se tu li redarguisci, vuol dire che li hai visti. Se ti hanno fatto perdere le staffe, hanno raggiunto il loro scopo: dimostrare che sono cattivi, che alla fin fine è il loro modo di difendersi.
Lungo la mia strada di maestra ne ho incontrati tanti di bambini, per questo ho sviluppato nel tempo la capacità di connetterli immediatamente con la tipologia di genitore o di situazione dalla quale provengono. È come un filo che vedo subito, la corrispondenza.
Situazioni di trascuratezza, o di iperprotezione – che alla fine sono due facce della stessa medaglia nel senso che creano danni entrambe – situazioni di attenzioni apparenti, di immaturità genitoriale, di ambizioni trasferite, di conflitti tra coniugi, di abbandono, situazioni di relazioni serene tra genitori conviventi o separati, situazioni armoniose, in cui “si prepara il bambino per il viaggio e non il viaggio per il bambino”.
In mezzo a tutto questo quadro così umanamente variegato, ahimè, si è innestata la tecnologia. Di conseguenza, laddove le situazioni familiari risultano “armoniche”, l’utilizzo della tecnologia riesce in qualche modo ad essere regolamentato e supervisionato, seppure a fatica. In tutte le altre, sfugge di mano.
Internet è un pericolo, ma la stragrande maggioranza dei giovani genitori non ne è consapevole. E così il cellulare, il computer diventano per i bambini un passatempo qualunque, un modo per riempire la solitudine, per intrattenere rapporti con comunità virtuali vicine e lontane. Un mondo che la pandemia ha dilatato enormemente. Capita (o capitava) a tutti di vedere al ristorante, sul treno, per strada bambini persi nei cellulari, e genitori contenti, perché così “stanno tranquilli”. Bambini seduti su panchine dei giardinetti che si sfidano con un gioco virtuale. Comunità che sfuggono al controllo, giovani youtuber che diventano modelli di comportamento, di linguaggio, di trasgressione.
Se poi questi viaggi nella realtà parallela si svolgono nella solitudine di una cameretta, allora perdono ogni confine, vale tutto e il contrario di tutto, l’importante è far parte di una comunità, l’importante è che qualcuno mi veda.
Tre S mi vengono in mente: solitudine, superficialità, sottovalutazione. Unite alla mancanza di regole. Perché non è scritto da nessuna parte che un bambino di 8 anni debba possedere un cellulare. E nemmeno di 10 o 11. E, se proprio deve averlo, non è prescritto dal medico che necessariamente debba connettersi a Internet.
I genitori darebbero la loro automobile da guidare al proprio bambino? Nessuno lo farebbe, a meno che non fosse impazzito.
È un mondo complicato e pieno di stimoli il nostro, frettoloso, competitivo, ansiogeno e stressante, ma i bambini non possono farci nulla. Loro non chiedono di venire al mondo, ma, una volta che ci sono, hanno diritto al tempo, all’attenzione, alla cura, alla protezione degli adulti. Hanno diritto al gioco creativo, a cucinare i biscotti, ad ascoltare una fiaba, a giocare a palla o a nascondino con amici in carne e ossa, hanno il diritto all’ascolto. Hanno diritto a delle regole, attraverso le quali strutturare la loro forza futura.
Nel mio nuovo libro sui diritti dei bambini, La leggerezza delle nuvole, c’è un racconto sul diritto all’ascolto che si intitola: “Il diritto di Emily”. Che non è altro che il diritto di Antonella e di tutti gli altri bambini che meritano di avere intorno adulti degni di questo nome.
Parleremo del rapporto tra i bambini e la tecnologia nel percorso di lezioni in diretta raccontate in classe da Luca Pagliari, giornalista e storyteller con il quale collaborerò per gli sviluppi didattici, utili a collocarle nell’ambito dell’educazione civica.