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Autore: Mirella Mazzarini

Presidente dell'Unicef Marche ed ex dirigente scolastica. Da anni è impegnata nel campo del volontariato e della pedagogia.

Una spinta gentile per un mondo più accogliente

Giornata Mondiale della Gentilezza

Il 13 novembre è la Giornata Mondiale della Gentilezza, che dal 1998 si festeggia in tutto il mondo come World Kindness Day. Questa data coincide con la giornata d’apertura della Conferenza del “World Kindness Movement” (Tokyo nel 1997) che si è chiusa con la firma della Dichiarazione della Gentilezza. Il movimento ha inteso promuovere il potere positivo della gentilezza attraverso la proposta di una ricorrenza finalizzata a ispirare gesti di generosità e di altruismo “per creare un mondo più gentile”.

Perché questa giornata è così importante? Come si può definire la gentilezza?
Molti possono affermare che la sensazione di aver incontrato una persona gentile si avverte in modo immediato; più difficile, invece, è riuscire a definire cosa sia “gentilezza”. Una parola preziosa, che sembra oscillare e mescolarsi ad altre: benevolenza, ascolto, cortesia, premura. Una parola che ha attraversato il tempo riuscendo a esprimere i tanti aspetti possibili di un comportamento “gentile”, fino alla formulazione più innovativa, che dobbiamo al premio Nobel per l’economia 2017, Richard Thaler, padre delle “Nudge”, la teoria che riguarda “una spinta gentile”, ovvero le strategie da utilizzare per decisioni migliori nei vari ambiti del comportamento.

LA GENTILEZZA NELLA LETTERATURA

“Biondo era e bello e di gentile aspetto”, scrive Dante Alighieri per narrare, nella Divina Commedia (III canto, Purgatorio), l’incontro con Manfredi, figlio di Federico II di Svevia. Un verso che esprime tutto il rispetto del poeta verso un personaggio che si pone in modo pacato, senza, tuttavia, rinunciare a chiedere a Dante di riferire alla figlia Costanza la sua situazione nell’antipurgatorio e la verità sulle sue vicende. Ecco, allora, una possibile definizione, di gentilezza: un aspetto che riguarda un comportamento equilibrato, un atteggiamento cordiale. La gentilezza di Manfredi possiede il tratto insito nel significato originario della parola “gentile”. “Gentilis”, dal latino, è chi appartiene alla gens, alla stirpe, quindi di buona stirpe, nobile di nascita, di origine. Così di Enea, nel canto XXIV dell’Inferno, è scritto “onde uscì de’ Romani il gentil seme”, vale a dire il capostipite della gente romana.

Ma la gentilezza può essere ritrovata in un sorriso, in una carezza, in un saluto: “potete sempre dar qualcosa, non foss’altro che gentilezza”, ha scritto Anna Frank. Nell’evoluzione del significato di gentilezza, infatti, al valore della stirpe, si sostituisce in modo sempre più evidente il valore delle doti spirituali, la nobiltà dei sentimenti, l’animo essenzialmente gentile. Ancora a Dante dobbiamo quell’ “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende”, verso famosissimo in cui il poeta canta l’amore di Paolo e Francesca.

Quale potere ha la gentilezza sulle persone e sul mondo? Quali energie suscita?
Ancora Dante può ispirarci attraverso Beatrice, la gentilissima: Beatrice è la donna per cui Dante abbandonò “la volgar schiera”, la donna alla quale ha dedicato il sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare”.

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.

La gentilezza è una qualità così potente da suscitare un’ammirazione che lascia ammutoliti? Dante nel sonetto, sicuramente il più famoso in lode di Beatrice, coglie la personalità di Beatrice nel suo procedere e nel suo salutare, come modi che sanno esprimere dimensioni di attenzione profonda verso gli altri.

IL MOVIMENTO PICCOLA GENTILEZZA

Se per Dante la gentilezza è essenzialmente nobiltà d’animo, oggi, in un percorso di arricchimento del concetto stesso, riconosciamo nella gentilezza una qualità che esprime e rappresenta valori di umanità. La forza generatrice della gentilezza è quella che sentiva fortemente di voler diffondere Seiji Kaya, già presidente dell’Università di Tokyo, nel discorso di addio agli studenti il giorno della laurea: “Voglio che tutti voi siate coraggiosi nel praticare la ‘piccola gentilezza’, creando così un’ondata di gentilezza che un giorno investirà tutta la società giapponese”.

Furono proprio queste parole, pronunciate nel marzo 1963, diffuse sui vari media, a segnare l’inizio del Movimento Piccola Gentilezza. La convinzione che il mondo abbia bisogno di gentilezza si è imposta in modo tale che via via le adesioni delle Nazioni al movimento sono aumentate e, parallelamente, si sono create Reti di programmi. L’Italia è presente nel movimento dal 2000, partecipando ad iniziative su buone pratiche di condivisione e sviluppo sostenibile. La sede del movimento è a Parma. Oltre 100 i Comuni italiani che hanno aderito alla Rete Nazionale Assessori alla Gentilezza, valorizzando la collaborazione tra istituzioni e cittadini. “Il tempo della gentilezza” rappresenta una delle Campagne ideate per costruire legami di disponibilità fra le persone, per essere vicini a chi è in difficoltà.

Esiste anche una Rete Nazionale Insegnanti per la Gentilezza per coordinare progetti educativi incentrati sugli aspetti formativi della gentilezza. Molti Istituti hanno progettato percorsi educativi finalizzati al valore della gentilezza in tutti i suoi aspetti, calati nella specificità di tutti gli ordini di scuola. “Largo alla Gentilezza” può riferirsi al gioco, alla musica, al parlare, all’inventare storie, al muoversi. Ci sono scuole in cui la gentilezza è descritta lungo le scale dell’edificio che gli alunni salgono per entrare a scuola! Una descrizione operativa di un impegno quotidiano!
Importante è offrire nuove, spesso inedite, opportunità di affrontare positivamente i molteplici aspetti del nostro tempo, la complessità delle relazioni interpersonali, educando alla capacità di vivere costruttivamente insieme.

Un atto gentile scaturisce da un sentimento che diventa capacità di dare valore agli altri, di provare empatia, di comunicare generosità e solidarietà. È un comportamento che denota altruismo, benevolenza, desiderio di vicinanza. Non è debolezza.
Può essere una strategia? Può essere formalismo? La gentilezza vera non ammette falsificazioni, altrimenti non si trasformerà mai in quell’onda capace di trasformare il mondo e non sarà mai un piacere che si alimenta di reciprocità.

La gentilezza è una bomba pacifista. Per me è una qualità, un modo di approcciarsi agli altri che mi commuove e che porta con sé, sembra un controsenso, una carica potente.
Nel luogo comune contemporaneo il vincente è quello aggressivo e arrivista. Rivaluto la gentilezza che, come il sorriso, spiazza. La trovo in cose semplici, anche nel gesto di un cameriere, ma mi emoziona soprattutto quando viene da chi è più debole.

(Francesco Gabbani)

Quando la misura e la gentilezza si aggiungono alla forza, quest’ultima diventa irresistibile.
(Gandhi)

Sii gentile quando possibile. È sempre possibile.
(Dalai Lama)

700 anni dalla morte di Dante

Dante e Virgilio: il Sommo Poeta e il suo Maestro

Celebriamo Dante Alighieri nella ricorrenza dei 700 anni dalla sua morte, avvenuta a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321.

Settembre, che vede l’inizio di un nuovo anno scolastico, ci consegna una data da ricordare e soprattutto un evento capace di dare speciale ispirazione e risonanza all’esperienza del viaggio umano e professionale che si realizza nella scuola.

Un viaggio da affrontare con disponibilità verso gli altri, curiosità, intelligenza nel confronto con i tanti problemi. Proiettati nel nuovo Cammino, celebriamo Dante Alighieri, nel mese della sua morte, rispecchiandoci nella relazione del Sommo Poeta con il suo Maestro: una relazione di aiuto, di scambio, di illuminazione.

Proviamo a riflettere sul valore educativo del rapporto di Dante con la sua Guida, un rapporto su cui si fonda il significato più alto della Divina Commedia.

Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me,» gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!»    

(Inferno, I, 64-66)

Il deserto rappresenta il sentimento di smarrimento di Dante nella selva oscura che lo induce a invocare aiuto gridando “miserere” verso qualcuno che non sa identificare. Quell’ombra apparente, che risponderà prontamente, dichiara di essere non più uomo, di essere mantovano, vissuto a Roma, nel I secolo a.C., al tempo di Augusto. È Virgilio, grande poeta latino, autore dell’Eneide, grande esempio di sapienza, considerato il “massimo poeta” in epoca medievale. Dante lo presenta come una figura centrale del viaggio allegorico nella Divina Commedia. Virgilio appare già nel I canto dell’Inferno ed è simbolo di saggezza e autorità: “tu sei lo mio maestro e ‘l mio autore”, scrive Dante. Nella Commedia è simbolo della Ragione, esempio massimo del valore della sapienza umana di chi è vissuto in epoca pre-cristiana.
Sarà Virgilio a mostrare a Dante le “segrete cose”, i misteri del regno dell’oltretomba.

«E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose».

Inferno, III, 19-21

A partire dall’incontro nella “selva oscura” Dante si rivolge a Virgilio come un discepolo verso il suo maestro, ma presto cresce il sentimento di fiducia e le parole diventano cariche di affetto, rivelando un rapporto quasi genitoriale tra i due. Virgilio apre lo sguardo di Dante sulle miserie dei dannati

«Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».                       
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.    

(Inferno, III, 32-36)

Virgilio è un modello di poesia e di umanità per Dante; tanti gli esempi in molti episodi dell’Inferno. Nel canto III, quando incontra gli ignavi, Virgilio dice al poeta di “non curarsi di loro” (non ragioniam di lor, ma guarda e passa).

Di fronte a Caronte, il traghettatore delle anime dei dannati, il quale tenta di impedire a Dante di procedere nel suo viaggio, Virgilio testimonia l’alta missione del suo discepolo e spiega come questi, per realizzare lo scopo del suo compito spirituale, trovi in cielo divina protezione:

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare
».

(Inferno, III, 94-96)

Virgilio accompagna Dante, è la sua guida, lo consiglia, lo incoraggia, lo chiama “figlio”. Ammirazione, rispetto e fiducia sono i sentimenti del Poeta verso la sua Guida, appellato come “dolcissimo patre” nel momento del distacco (Purgatorio, XXX, 50), quando la Ragione cederà il posto alla Fede e alla Grazia divina.

Le ultime parole di Virgilio verso Dante lo richiamano a non aspettare più il suo insegnamento perché egli è, ormai, signore delle sue azioni e dei suoi pensieri. La ragione umana non può altro. Nello svolgersi del cammino sarà Beatrice a illuminarlo.

«Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio
,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio».         
               
(Purgatorio, XXVII, 139-142)

La ragione, consapevole dei suoi limiti, guarda alla fede come possibilità di salvezza.
Virgilio accetta di essere Guida per Dante, nel viaggio ultraterreno dal male alla redenzione, e di condividere con lui l’esperienza del dolore umano e dell’aspirazione alla perfezione. Così le vicende si susseguono in un percorso che sembra un perdersi negli abissi dell’Inferno ma che, in realtà, è un elevarsi alla conquista del Paradiso.

Attraverso la lettura dei versi di Dante possiamo riflettere sull’autonomia di giudizio, considerata traguardo del rapporto educativo, sia a livello di vissuto umano sia come dimensione alta del messaggio della Commedia! Proviamo a chiederci, inoltre, in quante delle relazioni che abbiamo costruito, e in quanti incontri, abbiamo provato ad essere “dolcissimo genitore e maestro” e quando, nella nostra esperienza di vita, un incontro è stato fondamentale per non perderci “in una selva oscura”.

Un incontro, uno scambio, che ricordiamo attraverso “una mano che conforta”: “la sua mano a la mia puose/ con lieto volto, ond’io mi confortai”.

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100 anni di Edgar Morin

Un punto di riferimento per la cultura europea

Il prestigio e l’autorevolezza di Edgar Morin sono indiscutibili. La sua figura emerge sia sul piano teorico e della ricerca, sia nella partecipazione attiva al dibattito culturale europeo e internazionale. Nei suoi libri ha affrontato i temi cruciali dello sviluppo secondo una prospettiva aperta ai nessi che legano uomo, natura, cultura.

I SUOI SCRITTI

I titoli dei suoi scritti si impongono come dichiarazioni e messaggi che coinvolgono il lettore quale singolo individuo e quale persona appartenente della comunità sociale. Dalla pubblicazione di La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (2000), e I sette saperi necessari all’educazione del futuro (2001) l’importanza per la scuola di formare teste ben fatte, secondo un’espressione già di Montaigne, ha avuto una cornice di riferimento organizzata rispetto ad assunti riconosciuti, a tutt’oggi, fondamentali. Secondo Morin per una testa “ben fatta” occorre superare l’idea di un sapere parcellizzato in tante discipline per privilegiare le interrelazioni fra le conoscenze e favorire l’integrazione tra cultura scientifica e cultura umanistica.

MORIN E LA RIFLESSIONE SULLA SCUOLA

La scuola deve favorire l’attitudine a trattare problemi, a correlare i saperi in un orizzonte di significato. Costante in Morin è il richiamo, rivolto in particolare agli educatori, a considerare tre sfide fondamentali: la sfida culturale verso un pensiero che sappia privilegiare i contesti e le relazioni tra informazioni e conoscenze; la sfida sociologica per cui apprendere è soprattutto apprendere a vivere, a diventare cittadini del villaggio globale; la sfida civica per cui il sapere si definisce anche in termini responsabilità e solidarietà.

Gli insegnanti, in questo progetto di riforma, hanno compiti fondamentali:

  1. Fornire una cultura che permetta di distinguere, contestualizzare, globalizzare, affrontare i problemi multidimensionali, globali e fondamentali;
  2. Preparare le menti a rispondere alle sfide che la crescente complessità dei problemi pone alla conoscenza umana;
  3. Preparare le menti ad affrontare l’incertezza favorendo l’intelligenza strategica e la scommessa per un mondo migliore;
  4. Educare alla comprensione umana fra vicini e lontani;
  5. Insegnare l’affiliazione a partire dal proprio villaggio sino al villaggio globale;
  6. Insegnare la cittadinanza terrestre come comunità di destino dove tutti gli umani sono posti a confronto con gli stessi problemi.

LA TEORIA DELLA COMPLESSITÀ E LA RIFLESSIONE SULLA PANDEMIA

Negli anni sono state innumerevoli le pubblicazioni di Morin, accanto ad una sua presenza attiva nel dibattito sui temi caldi dello sviluppo. Morin è un pensatore a cui dobbiamo la declinazione della teoria della complessità (La sfida della complessità, 2017) e una costante attenzione ai temi che riguardano l’etica e il rinnovamento della politica.

Il valore del pensiero critico permea ogni suo intervento come condizione basilare nella formazione alla saggezza. Se costanti sono in Morin le riflessioni sulle relazioni che riguardano noi stessi e il rapporto con il pianeta e con gli altri, fondamentale il suo contributo nella situazione di problematicità e di incertezza come quella che ha caratterizzato la pandemia da Covid-19.

Nel libro Cambiamo strada. Le 15 lezioni del Coronavirus (2020) Morin afferma che la pandemia permette di imparare per il futuro in quanto rappresenta la possibilità per gli uomini di diventare consapevoli di appartenere a una comunità di destino. È tempo di cambiare strada, di proteggere il pianeta, di umanizzare la società. «Come vivi?», questa la domanda fondamentale del libro. È urgente chiederselo ogni giorno e ogni giorno rispondere. Una domanda per i politici, gli studenti, i professionisti e, infine, per tutti. C’è bisogno di una nuova autocoscienza. Nessun cambiamento è mai nato se non da una consapevolezza nuova delle implicazioni e delle conseguenze del nostro modo di vivere.

“Già dall’alba dell’umanità, dall’alba dei tempi, eravamo nell’avventura ignota; lo siamo più che mai e dobbiamo esserlo con coscienza […] ci si deve preparare al nostro mondo incerto e aspettarsi l’inatteso. Prepararsi al nostro mondo incerto è il contrario di rassegnarsi a uno scetticismo generalizzato. È sforzarsi a pensare bene, rendersi capaci di elaborare e usare strategie, e, infine, fare con tutta coscienza le nostre scommesse. Sforzarsi a pensare bene è praticare un pensiero che si sforzi senza sosta di contestualizzare e globalizzare le sue informazioni e le sue conoscenze, che senza sosta si applichi a lottare contro l’errore e la menzogna a se stesso […] una strategia porta in sé la consapevolezza dell’incertezza che dovrà affrontare e comporta per ciò una scommessa, l’integrazione dell’incertezza nella fede o nella speranza”. 1
 

1 Edgar Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina, 2000.

Dante ecologista

La natura nella Divina Commedia

Nella Divina Commedia ci sono tantissimi riferimenti alla natura e agli animali, immagini e suggestioni che Dante utilizza in forma allegorica. Partiamo per un viaggio alla scoperta dei significati nascosti della Commedia!

 

DANTE E GLI ANIMALI

Presenza costante e sorprendente sono gli animali, tanti e di diverso genere. Dante li utilizza nella descrizione di stati d’animo e di caratteri; attraverso gli animali crea le atmosfere che connotano gli scenari dei regni dell’oltretomba. Pensiamo alle tre fiere che il Poeta incontra nel primo canto dell’Inferno, nella selva oscura: la lince, il leone, la lupa. La narrazione è realistica, ma occorre superare il significato letterale delle descrizioni e cogliere il livello simbolico perché Dante si misura con la lussuria, con la superbia, con l’avarizia, tutti impedimenti che ostacolano la via verso la salvezza e la redenzione. Lo stesso Dante ha chiarito la dimensione allegorica del suo poema per cui ogni elemento, ogni particolare riportano ad una struttura profonda dell’opera e ne rappresentano la chiave di lettura e il significato. Così le tre fiere sono i vizi che conducono al peccato, e che incrinano la virtù nell’animo umano.

Altri animali sono presenti carichi di significato: gru, formiche, pesci, tutti elementi che riconducono all’idea di migrazione e, in senso più ampio, di pellegrinaggio, in un poema che è poesia e metafora del viaggio.

 “Quali colombe dal disio chiamate/ con l’ali alzate e ferme al dolce nido/vegnon per l’aere, dal voler portate;” sono i versi del Canto V dell’Inferno, quello conosciuto come il canto di Paolo e Francesca e del loro sventurato amore.

Gli innamorati sono paragonati alle colombe, immagini dell’amore puro, incondizionato, simbologia presente nelle narrazioni e nelle rappresentazioni delle espressioni culturali di diverse epoche storiche.  Dante le utilizza per la forte capacità di evocazione, per il richiamo ad una grazia che non è solo del volo, in quanto assimilabile ad una figura universale dell’immaginario emotivo.

Nel Canto XIX (vv. 46-48) del Purgatorio si può leggere Con l’ali aperte, che parean di cigno,/volseci in sù colui che sì parlonne/tra due pareti del duro macigno”. Le ali aperte sono quelle dell’Angelo della sollecitudine che si presenta a Dante con voce dolce e benevola, così che l’immagine del cigno è quella più appropriata per narrare l’incontro.

 

DANTE E LA NATURA

Ma non solo gli animali, anche le piante e i fenomeni naturali rendono significativo e originale lo stile di Dante nella Commedia.

“Come d’autunno si levan le foglie/l’una appresso dell’altra, fin che ‘l ramo/vede alla terra tutte le sue spoglie,” (Inferno, III, 112-115). È un’immagine poetica che prepara la descrizione dei dannati che aspettano ansiosi di passare ad altra riva al cenno di Caronte. Una delle tante similitudini che Dante ci offre per rappresentare con più efficacia una realtà difficile da rendere con parole.

Il luogo è quell’inferno “d’ogni luce muto” in cui si esprime il rapporto tra luce e buio come incontro tra umano e divino, difficile da rendere se non con una immagine che utilizza i sensi e li travalica, come fa Dante con la sua grande ricchezza inventiva.

Già nel I Canto, oltre l’immagine della selva, appare il sole come “raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle”.

Dante non era un botanico, uno scienziato, ma aveva molte e approfondite conoscenze del mondo della natura che gli permettevano di essere attento e accurato nel disegnare i paesaggi e nel creare allegorie. Il poeta osserva la luce, l’aria, l’acqua, il vento, i colori, le stelle e il cielo e ne trae spunti di alta poesia: “L’alba vinceva l’ora mattutina/ che foggia innanzi, sì che di lontano/conobbi il tremolar de la marina“. (Purgatorio, I,115-117).

Dante ha molto da proporci per quanto riguarda il rispetto verso le manifestazioni della natura, soprattutto sa trasmettere la sua curiosità verso tutti i fenomeni imprevedibili o noti che egli osserva con occhi attenti ai dettagli, ai colori, al movimento. La natura è occasione per descrivere le leggi del cosmo oppure il carattere degli uomini.

Nel XXV canto del Paradiso, narrando della sua speranza di tornare a Firenze in virtù della sua Commedia, Dante scrive dell’auspicio che il poema sacro “vinca la crudeltà che fuor mi serra/
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,/nimico ai lupi che li danno guerra”.

Il riferimento è a Firenze, bello ovile, a se stesso, agnello, e ai suoi concittadini faziosi, lupi, in similitudini che traggono dal mondo della natura potenza descrittiva e valenza di significato emotivo, intellettuale, morale, politico.

Ecco una bella pista di lavoro per leggere la Commedia e far appassionare, a scuola, bambini e ragazzi al mondo di Dante!

 

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I Diritti delle Bambine e dei Bambini

Trent’anni dalla ratifica dell’Italia della Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza

Tante e diverse le strade che percorrono i bambini per giungere alla consapevolezza di essere agenti di diritti: strade di esperienza personale, di confronto con gli avvenimenti del mondo, di scambio con gli altri. La conquista dei diritti è un cammino individuale fatto di riflessione e di scoperta che si svolge sempre nel contesto di una comunità che cresce essa stessa mentre procede nell’affermazione del valore dei diritti. La scuola accompagna bambini e ragazzi a conoscere cosa vuol dire avere dei diritti quando l’infanzia vive situazioni in cui l’istruzione, come principio di umanizzazione, non è negata, al pari di altri irrinunciabili diritti: la salute, la protezione, il nome. Troppo spesso, infatti, situazioni di precarietà e di emergenza precludono ai bambini la possibilità di essere titolari di diritti civili, sociali, politici, economici. Quello dei diritti è un tema trasversale, con carattere di universalità, che detta la visione del presente e del futuro e indica la via per un mondo migliore, in cui la promozione del benessere per ogni bambino rappresenta il fine essenziale.
 

UNA DATA DA NON DIMENTICARE

Il 27 maggio è una data importante: ricorrono trent’anni dalla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rights of the Child – CRC), approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989.

La Convenzione è il trattato in materia di diritti umani maggiormente condiviso fra gli Stati e lo Stato italiano l’ha ratificata il 27 maggio 1991, con la legge n. 176. Attraverso gli impegni assunti con la Convenzione è stato possibile modificare molte situazioni di emergenza vissute dai bambini durante le guerre e migliorare, da allora, le condizioni di vita dell’infanzia in ogni parte del mondo. Quando si parla di aiuti umanitari per le zone sottosviluppate si deve riflettere sul concetto di povertà che non è solo mancanza di cibo e non è solo povertà materiale. La povertà è una condizione anche dei minori in Italia, perché molti vivono la mancanza di cure adeguate, di case confortevoli ed hanno difficoltà a frequentare la scuola, a vivere positivamente il tempo libero, a praticare uno sport. Occorrono scelte politiche mirate e investimenti efficaci per dare forma ai diritti dell’infanzia e rendere la Convenzione un percorso di azioni concrete.
 

I QUATTRO PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA CONVENZIONE

La Convenzione è composta di 54 articoli e il testo è suddiviso in tre parti: la prima contiene l’enunciazione dei diritti (artt. 1-41), la seconda individua gli organismi preposti e le modalità per il miglioramento e il monitoraggio della Convenzione (artt. 42-45), la terza descrive la procedura di ratifica (artt. 46-54). 

Questi i quattro principi fondamentali della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: 

  1. Non discriminazione (art. 2): i diritti sanciti dalla Convenzione devono essere garantiti a tutti i minorenni, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinione del bambino/adolescente o dei genitori. 
  2. Superiore interesse (art. 3): in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità. 
  3. Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino e dell’adolescente (art. 6): gli Stati devono impegnare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita e il sano sviluppo dei bambini, anche tramite la cooperazione internazionale. 
  4. Ascolto delle opinioni del minore (art. 12): prevede il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni.
     

LA CONVENZIONE OGGI

La scuola fa propri i principi della Convenzione e li esprime nel suo essere comunità educante. Alunni e docenti sono impegnati a lavorare con continuità sul significato di un testo che costituisce un documento di riferimento essenziale per dichiarare l’offerta formativa come pista di orientamento delle attività educative e didattiche.

Capire il valore e l’importanza dei diritti riguarda la possibilità di affrontare questioni e domande cruciali soprattutto in questo tempo in cui lo stravolgimento della consueta quotidianità, provocato dall’emergenza sanitaria da Covid-19, ha fatto emergere nuove vulnerabilità. L’impatto della pandemia sul tessuto sociale ha sensibilmente aumentato anche i Italia il numero dei bambini e degli adolescenti che vivono situazioni problematiche in relazione all’esperienza scolastica, ai vissuti familiari, alle relazioni con i pari.
 

TRENT’ANNI DI IMPEGNO E RISULTATI

Nel mondo, tuttavia, La Convenzione è stata uno strumento fondamentale per produrre effetti di miglioramento delle condizioni di vita dei bambini e degli adolescenti negli ultimi trent’anni perché è stata quasi dimezzata la percentuale dei bambini denutriti ed è stata ridotta la mortalità infantile.

Riflettere sui diritti vuol dire, ad esempio, sapere quante le bambine nel mondo costrette al matrimonio prima dei 18 anni, quanti i bambini che vivono in luoghi i cui l’acqua come bene primario è negata per l’impossibilità di approvvigionamento.

L’impegno a conoscere dei dati, che sono rilevanti perché fanno la differenza per la qualità della vita, non è semplicemente fare informazione, ma cercare di capire cosa vuol dire prendere a cuore situazioni che nulla hanno a che fare con il progresso e lo sviluppo. Vuol dire comprendere cosa ognuno può fare per modificare realtà che impediscono ai bambini di vivere una vita in cui la tutela e il rispetto siano garantiti.
 

Non c’è responsabilità più sacra di quella che il mondo ha verso i bambini. Non c’è dovere più importante di garantire che siano rispettati i loro diritti, che il loro benessere sia tutelato, che le loro vite siano libere dalla paura e dal bisogno e che essi possano crescere nella pace.

Kofi Annan

La donna nella Divina Commedia e l’Amore di Dante per Beatrice

Per un 8 marzo all’insegna dell’immaginario dantesco

Festeggiamo l’8 marzo con il Sommo Poeta Dante Alighieri: scopriamo insieme la rappresentazione femminile nella Divina Commedia e l’Amore di Dante per Beatrice!

Forte è la presenza della donna nella poesia di Dante e numerose le figure femminili nella Divina Commedia: da Francesca a Lucia, da Pia de’ Tolomei a Piccarda Donati. Un universo carico di umanità, una presenza verso cui Dante dimostra sempre ammirazione e rispetto. Figure sospese tra cronaca e immaginazione, donne che Dante rende uniche nella dimensione più alta della poesia. In questo denso immaginario è tuttavia Beatrice la creatura che rappresenta in modo sorprendente e affascinante l’idea di donna del grande fiorentino. Beatrice è da lui considerata meraviglia delle meraviglie, “venuta da cielo in terra a miracol mostrare” (Vita Nova, sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare).
 

saluto a beatrice

Dante Gabriel Rossetti, particolare del Saluto di Beatrice, dipinto ad olio con lamina dorata, 1859-1863, National Gallery of Canada, Ottawa.
 

La Beatrice di cui Dante scrive nella Commedia è, in realtà, Bice, figlia di Folco Portinari, nata a Firenze nel 1266, morta poco dopo il matrimonio, per complicazioni da parto, a soli 24 anni. Dante l’aveva incontrata in chiesa all’età di nove anni e poi nuovamente a diciotto, creatura terrena che aveva suscitato nell’animo del poeta un sentimento che non si sarebbe mai spento, prefigurando il passaggio dal saluto, salus, alla salvezza, quando la giovane si trasforma in creatura angelicata.

L’incontro con Beatrice è l’evento che illumina la vita di Dante e la sua poesia. L’innamoramento influenzerà tutta la sua vita, anche se Beatrice non è la donna sposata da Dante.

Nei tre regni dell’oltretomba descritti nella Commedia Beatrice è la vera e unica guida del Poeta, è lei che intercede per lui scendendo nel Limbo per pregare Virgilio di avere cura di Dante, e lo soccorre nei momenti di pericolo.

I’ son Beatrice che ti faccio andare; 
vegno del loco ove tornar disio; 
amor mi mosse, che mi fa parlare.        

(Inferno, I,70-72)

Beatrice è la donna per cui Dante abbadonò “la volgar schiera”, come dice Lucia rivolgendosi a Beatrice per invitarla a soccorrere Dante. Disse: “Beatrice, loda di Dio vera, ché‚ non soccorri quei che t’amò tanto, ch’uscì per te de la volgare schiera?” (Inferno I, 103-105)        

 Beatrice non è una figura disincarnata, astratta; Dante la definisce “sì lieta come bella” (Par., II, 26), soave e piana è la sua voce quando parla con Virgilio, ma, soprattutto, conosciamo Beatrice attraverso il sorriso e lo sguardo:

“Lucevan li occhi suoi più che la stella” (Inferno, II, 55)

“e cominciò, raggiandomi d’un riso
tal, che nel foco faria* l’uom felice” (Pd. VI,17-18)

“Non le dispiacque, ma sì se ne rise,
che lo splendor de li occhi suoi ridenti
mia mente unita in più cose divise.” (Pd. X, 61-63)

Così reale e così ideale è la donna della sua vita, che Dante inventa un nuovo termine, una parola ancora mai usata per esprimere le sensazioni che ella suscita nel suo essere: “‘mparadisa”. Beatrice è “quella che “‘mparadisa la mia mente” (Paradiso, XXVIII, 3), ossia colei che innalza la mia mente alla gioia paradisiaca.

Beatrice è il cuore del viaggio di Dante dall’umano al divino, è la donna attraverso la quale egli affronta e realizza il suo “pellegrinaggio”, è la musa che ispira il Poema. Beatrice è la possibilità, per Dante, di scoprire la bellezza e la luce dell’Amore assoluto.
 

Scopri tutti i testi Raffaello dedicati a Dante Alighieri!
 
sotto la stella di dante
 
la divina commedia
 
nel mezzo del cammin

2021: In viaggio con Durante degli Alighieri, detto DANTE

Dante nell’arte e nella letteratura

Il 2021 è l’anno dedicato a Dante Alighieri: poeta, scrittore, teologo, uomo politico, considerato il padre della lingua italiana e uno dei massimi esponenti della letteratura mondiale.

Un anno all’insegna di iniziative, mostre e manifestazioni volte a ricordare i settecento anni dalla morte del Sommo Poeta, nato a Firenze tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 e morto a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321.

Monumenti scultorei, effigi, immagini di Dante sono in ogni parte del modo a testimoniare una fama che ha oltrepassato le aule scolastiche, gli ambienti culturali accademici, le biblioteche, per diventare una presenza viva nella cultura. Le continue pubblicazioni, i convegni a tema, sottolineano l’attualità di un autore eccezionale, fonte di ispirazione per pittori, letterati, musicisti dal medioevo ai nostri giorni.

LA LECTURA DANTIS: UNA TRADIZIONE CHE VIENE DA LONTANO

Eventi e rassegne di “letture dantesche” da parte dei media, di teatri, di enti culturali, hanno rivelato come quella di Dante sia un’opera capace di appassionare, coinvolgere, di richiamare valori e riflessioni di grande attualità e autentica modernità. Dante parla di sentimenti, drammi, speranze, che appartengono all’uomo, oltre il tempo, oltre le concrete esperienze vissute. Dante nella “selva oscura”, che si confronta con la sofferenza degli uomini e delle donne, che cerca risposte, che indaga il mistero dell’esistenza, è ciascuno di noi. Così non è irrilevante chiedersi se lo spettacolo di piazze piene di pubblico rappresenti un fenomeno solo del nostro tempo, una strategia mediatica, un viaggio di riscoperta. In realtà la Lectura Dantis (espressione riferita alla lettura ad alta voce degli scritti di Dante, soprattutto dei Canti delle Divina Commedia) è un rito, una tradizione secolare, scaturita dall’interesse che l’opera dantesca, in particolare la Commedia, ha avuto quasi costantemente nel corso dei secoli.

Antesignano, nel 1373, della Lectura Dantis, fu Giovanni Boccaccio (1313-1375), l’autore del Decameron, incaricato dal comune di Firenze di commentare pubblicamente la Comèdia: «A favore dei cittadini che desiderano essere istruiti nel libro di Dante, dal quale, tanto nella fuga dei vizi quanto nell’acquisizione delle virtù, quanto nella bella eloquenza possono anche i non letterati essere educati».  

Fu proprio il Boccaccio ad aggiungere al titolo dell’opera l’aggettivo Divina con cui la conosciamo oggi, secondo quanto è dato ritrovare nel Trattatello in laude di Dante del 1362.

Ricordando le parole di Calvino “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, riconosciamo che Dante rappresenta questa idea nel senso più alto del termine. Parlare di Dante, soprattutto della Divina Commedia, vuol dire trattare di un testo unico nella produzione letteraria mondiale, inesauribile nella ricerca di significato, innovativo e originale nella forma linguistica.

Nel caso di Dante possiamo parlare di un vero culto, iniziato già negli anni in cui era in vita, un apprezzamento al letterato riconosciuto erede dei grandi classici, simbolo stesso della poesia.

Giovanni Boccaccio fu un grande ammiratore di Dante, lesse i suoi scritti, lo imitò e ne diffuse l’opera. Di lui scrisse una biografia, proprio il Trattatello in laude di Dante (1362), in cui si fondono elementi di documentazione storica e descrizioni volte a idealizzare quel poeta che definiscesingulare splendore italico”.

Questa la descrizione che possiamo leggere nel Trattatello:

“Fu adunche questo nostro poeta di mediocre statura e poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto; e il suo andare grave e mansueto; d’onestissimi panni sempre vestito. Il suo volto fu lungo, e ‘l naso aquilino; e gli occhi anzi grossi che piccoli; le mascelle grandi; e dal labbro disotto era quello di sopra avanzato; e il colore era bruno; e i capelli e la barba spessi, neri e crespi: sempre in faccia malinconico e pensoso.”

LA RAPPRESENTAZIONE ICONOGRAFICA DI DANTE

Se grazie a Boccaccio conosciamo la figura di Dante e i suoi aspetti caratteristici nella personalità, è a Giotto, contemporaneo e amico del grande fiorentino, che dobbiamo il primo ritratto dell’illustre poeta.
 

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Bottega di Giotto, Ritratto di Dante (1300-1302)

Nell’affresco Dante è vestito con un abito rosso, il colore diventato un simbolo, riproposto successivamente nelle tante opere pittoriche che hanno celebrato il poeta.

Famoso il ritratto di Luca Signorelli, ma le citazioni possono essere innumerevoli poiché tanti altri pittori, a partire dal medioevo, hanno voluto interpretare Dante, fino a Salvador Dalì nel Novecento.

Nei diversi ritratti lo sguardo di Dante è quello di un uomo “cortese e civile”, come scrive Boccaccio, ma è innanzitutto lo sguardo di un poeta che esprime profonda umanità, che guarda agli esseri viventi, secondo le diverse condizioni, volti a diverse mete “per lo gran mar dell’essere” (Paradiso, Canto I, 113).
 

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Agnolo Bronzino, Ritratto allegorico di Dante (1530)

Soffermiamoci sul dipinto di Agnolo Bronzino: qui si può rintracciare l’allegoria dell’immagine del poeta. Dante è con un abito rosso e con in capo la corona da Poeta, riferimento alla sua celebre Divina Commedia. Il volume è aperto a evidenziare le pagine del canto XXV del Paradiso, mentre il poeta guarda alla montagna del Purgatorio. La sua mano sembra proteggere la città di Firenze. Mondo terrestre e mondo ultraterreno sono avvicinati, contemplati e armonizzati in una sintesi unica.

Nel canto XXVII del Purgatorio Virgilio, nel salutare Dante, gli ricorda che ormai non dovrà più aspettare il suo insegnamento: «Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: / per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Purgatorio XXVII, 139-142).
 

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Dalì Salvador (Figueras, 1904 – 1989)
XXVII Canto del Purgatorio – Le ultime parole di Virgilio prima che Dante arrivi al Paradiso, incontrando Beatrice 

Ecco l’incoronazione di Dante da parte di Virgilio, sua guida e suo maestro. Ecco il riferimento della corona d’alloro, simbolo iconografico con cui il poeta è sempre raffigurato. Simbolo che, secondo fonti autorevoli, fu per Dante riconoscimento e consacrazione di eccellenza quando dopo la morte a Ravenna, il suo corpo fu seppellito con la corona di alloro in testa e la Divina Commedia in petto.

Ma quell’alloro proveniva da lontano, dal sogno profetico della madre di Dante, Bella, morta quando Dante aveva solo cinque o sei anni. Narra il Boccaccio che ella, non lontana dal tempo del partorire, “per sogno” vide quale doveva essere il frutto del suo ventre, sotto un alloro, nei pressi di una fonte.

“..pareva alla gentile donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire uno figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi(nutrendosi) solo delle orbache(bacche), le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pasto­re, e s’ingegnasse a suo potere d’avere delle fronde dell’albero, il cui frutto l’avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi(sollevarsi) non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno…”.

Nacque Dante: colui che dà.
 

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sotto la stella di dante
 
la divina commedia
 
nel mezzo del cammin
 
 

Parole a 360° – Sarà Pandemia la parola con cui ricorderemo l’anno 2020?

mascherina

 

Pandemia è stata, nell’anno che sta per terminare, una parola carica di esperienze problematiche individuali e sociali, una parola ricorrente, associata a virus, salute, pericolo. Una parola piena di preoccupazione, divulgata attraverso riviste specializzate, articoli di giornale, comunicazioni di enti, termine di riferimento specifico per le ricerche sul Covid-19 e sulle scelte ad esso correlate. Così è diventata una parola quotidiana, di uso comune, una parola che ha suscitato ansia oltre che animato confronti e prese di posizione. Le sofferenze inimmaginabili che ha significato l’hanno resa una parola simbolo.

Questa parola è stata considerata possibile parola dell’anno insieme ad altre come coronavirus, telelavoro, lockdown… dai linguisti e lessicografi dell’Oxford English Dictionary; da coloro, cioè, che ogni anno attribuiscono il titolo di parola dell’anno a quel termine che è «l’espressione che riflette lo stato d’animo e le preoccupazioni in cui ci troviamo e ha il potenziale per distinguersi come un termine culturalmente significativo». 

Il 2020, “un anno che ci ha lasciato senza parole”, non avrà la sua parola simbolo.

Pr la prima volta, nella sua storia, il prestigioso Dizionario non proclamerà un solo termine per indicare quello di maggiore risonanza nell’anno che si sta chiudendo.

 

oxford

Il Dizionario “madre di tutti i dizionari”, riconosciuto punto di riferimento della lingua anglosassone e non solo. La prima edizione risale al 1857.

Quando una parola diventa un riferimento così denso e ampio, capace di catalizzare emozioni, scelte, riflessioni, il tempo ne codifica l’intensità di significato e il valore.  Ecco che può diventare interessante, allora, pensare all’attualità di altre parole che, negli anni, sono state al centro dell’attenzione, prendendo spunto proprio dallo sguardo documentato da un Dizionario. In passato la scelta dell’Oxford  Dictionary, pur tra tante legittime previsioni, ha confermato le aspettative dei più ma ha anche suscitato sorpresa quando la parola andava a sondare un territorio inesplorato o, al contrario, banalizzato da una comunicazione superficiale.

Soffermiamoci a rileggere le  parole che hanno meritato in passato il titolo di Parola dell’Anno.

Nel 2019 la “parola”  è stata “emergenza climatica” perché in grado di trasmettere il senso di urgenza di misure legate al clima.

Osserviamo come il termine “emergenza” resti attualissimo nell’anno che sta per concludersi. Si impone con uno spessore di allarme che va a coinvolgere la vita e la salute degli individui e dei popoli per il pericolo rappresentato dal covid-19, pericolo che riguarda non solo la salute, nell’accezione ampia di benessere fisico-psichico-relazionale, ma tutte le criticità e le problematiche legate al benessere inteso come qualità della vita, da garantire e tutelare in campo economico e politico.

climate emergency

 

 

Nel 2018 il titolo va a “Toxic”

Toxic (tossico) è la parola inglese che, nell’anno di riferimento, è stata diffusamente usata per descrivere una vasta gamma di situazioni, preoccupazioni ed eventi. Dal significato originario di “velenoso”, usato per la prima volta nel 1664 in un libro sulle foreste, il termine “toxic” è dilagato nella politica e nella società, basti pensare al problema dell’inquinamento e alla diffusione di oppioidi e eroina. Tossici possono essere “gli ambienti di lavoro, le culture, le relazioni e lo stress”. Anche il dibattito politico ne rappresenta un chiaro esempio.

toxic

 

Nel 2017 si tratta di “Youthquake“, termine che identifica un “cambiamento significativo culturale, politico o sociale, creato dall’azione dei giovani”.

“Youthquake” è un termine  non  direttamente traducibile nella lingua italiana,  formata da “Youth” ( giovinezza) e  “Quake” (abbreviazione di “Earthquake”, il classico terremoto) e sta a indicare un cambiamento culturale e sociale che nasce dall’azione e dall’influenza delle persone più giovani. Per capire la scelta occorre considerare che, essendo la scelta effettuata all’interno del vocabolario inglese, l’Oxford Dictionary l’ha selezionata per il fatto di essere stata una dei capisaldi della campagna elettorale del movimento laburista.

Nel 2016 la parola è stata “post-truth”, post-verità.

La parola è collegata strettamente ad alcuni importanti avvenimenti avvenuti nel 2016, il riferimento è alla Brexit e a Trump, a situazioni in cui la verità delle notizie viene percepita e accettate sulla base di stati d’animo che poco tengono in conto della realtà dei fatti. Ufficialmente la parola sta per «circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno influenti nel modellare l’opinione pubblica degli appelli emotivi e delle convinzioni personali». In tempi di dominio del web e dei social network è un termine su cui riflettere.

Nel 2015, Emoji “faccina con le lacrime di gioia” è diventata parola dell’anno.

emoji

 

Il Dizionario Oxford, per la prima volta, ha selezionato un pittogramma: un’emoji, una di quelle faccine gialle che sempre più frequentemente arricchiscono e personalizzano le chat e le email. Cambia la comunicazione, i codici si integrano, così le faccine sono diventate un vero e proprio linguaggio che accumuna popoli e culture, pur nelle differenze di stili e di sistemi di codifica. L’emoji è stata scelta perché “riflette meglio l’ethos, l’umore e le preoccupazioni del 2015”.

 

Nel 2014 la parola dell’anno era Vape.

Oxford Dictionary ha scelto “Vape”, come la sua Word of the Year 2014.  Abbreviazione di “vapore” o di “vaporizzare,” “Vape” per Oxford è un verbo che significa “inspirare ed espirare il vapore prodotto da una sigaretta elettronica o un dispositivo simile.” La parola può riferirsi sia al dispositivo che all’azione. Un caso emblematico di come l’uso di una parola rappresenti i processi sociali che intervengono nel cambiamento del linguaggio. In questo caso è la sigaretta elettronica ad  aver prodotto una trasformazione sociale e culturale inimmaginabile negli ultimi trent’anni.

 

Nel 2013 una parola di uso ormai comune: Selfie.

selfie

Concludiamo con un SELFIE perché proprio selfie è stata la parola simbolo dell’anno 2013. Lo dichiarano i canali comunicativi dell’Oxford Dictionary con la definizione di selfie come “autoscatto generalmente effettuato con uno smartphone o con una webcam che viene poi pubblicato su un social network”. Perché “un’immagine vale più di mille parole”.

 

Parole a 360° – Come è nato l’aforisma?

“L’aforisma, la sentenza, sono le forme dell’eternità; la mia ambizione è dire in dieci frasi quello che chiunque altro dice in un libro, quello che chiunque altro non dice in un libro.” (Nietzsche)

Perché scrivere aforismi?

Perché ci sono autori che hanno addirittura scritto libri di aforismi e celebri sono gli aforismi di Nietzsche, Schopenhauer, Leopardi, Papini, Prezzolini, Flaiano, Valéry, Wittgenstein?

Magia e potenza del linguaggio.

L’aforisma, in una forma breve, rappresenta un’espressione e un condensato di saggezza, di sentimento, di giudizio.

Essenziali, pungenti, concisi, illuminanti, sono solo alcuni degli aggettivi che possono descrivere gli aforismi e spiegare perché, in molte occasioni si va a caccia di aforismi sui tanti siti dedicati per inviare messaggi nelle diverse occasioni in cui si cercano parole capaci di esprimere pensieri in modo originale e mirato.

Eccone alcuni:

 “Con il talento si vincono le partite, ma è con il lavoro di squadra che si vincono i campionati.”   Michael Jordan

“Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso.”  Nelson Mandela

“Il successo è sempre stato figlio dell’audacia.”   Voltaire

“Tutte le cose buone che esistono sono il frutto dell’originalità.”   John Stuart Mill

“Con il talento si vincono le partite, ma è con il lavoro di squadra che si vincono i campionati.”   Michael Jordan

Sul perché molti autori abbiano scritto aforismi lasciamo parlare i loro messaggi, come fossero messaggi in codice:

“Il bisogno di sicurezza ostacola qualsiasi grande e nobile impresa.”    Publio Cornelio Tacito

“Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire.” Marie Curie

“Se giudichi le persone, non avrai tempo per amarle.” Madre Teresa di Calcutta

“La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.”
Arthur Schopenhauer

 “Non v’è rimedio per la nascita e la morte, salvo godersi l’intervallo.”
Arthur Schopenhauer

 

Qual è l’origine dell’aforisma?

Ippocrate di Cos (460 a.C. – 377 a.C.), fondatore della medicina intesa come scienza, è riconosciuto come il primo autore di Aforismi. Nei suoi testi l’aforisma rappresenta una forma letteraria che prende in esame la cura del corpo, attraverso l’indagine delle cause naturali delle malattie. Scrive Ippocrate:  

Fa’ che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo.

Prima di guarire qualcuno, chiedigli se è disposto a rinunciare alle cose che lo hanno fatto ammalare.

Il corpo umano è un tempio e come tale va curato e rispettato, sempre.

Esistono soltanto due cose: scienza ed opinione; la prima genera conoscenza, la seconda ignoranza.

Dal 415 a.C., anno in cui Ippocrate compose i primi aforismi, quasi un prontuario di sintomi e decorsi delle malattie note in quel tempo, nello svolgersi dei secoli queste massime si sono trasformate in “pillole di saggezza”, mantenendo il loro valore terapeutico rivolto anche alla cura per la mente e alla possibilità di aiuto nelle diverse situazioni problematiche della vita.

Gli aforismi, dopo Ippocrate, fino al 1769, furono usati dalla Scuola medica salernitana in ambito medico; di seguito furono espressione di conoscenza e di esperienza nel campo dell’astrologia e con Tommaso Campanella della politica.

Il termine deriva dal greco antico e vuol dire definizione ma anche confine, orizzonte, aphorizein.   A livello di definizione i dizionari riportano la descrizione di una breve massima che esprime una norma di vita o una sentenza filosofica in forma icastica, lapidaria, talora anche paradossale. A questi elementi non si può non aggiungere l’effetto sorpresa che rende l’aforisma ineguagliabile.

Nel tempo dei social, l’aforisma vive una stagione di grande successo comunicativo. La sua brevità lo rende adatto ad accompagnare una fotografia, a descrivere un luogo, a evidenziare una iniziativa. Frasi lapidarie, incisive, essenziali, caratterizzano l’aforisma come genere letterario e si prestano a sottolineare valori e finalità da condividere.

Per chiudere alcuni aforismi sull’ironia, una figura retorica che poggia il suo significato sul concetto di intelligenza e di relazione sociale. Molti autori famosi hanno scritto aforismi su questo prezioso atteggiamento, tutti attuali e puntuali, oltre i confini del tempo della loro ideazione.

“L’ironia è l’occhio sicuro che sa cogliere lo storto, l’assurdo, il vano dell’esistenza.” Sören Kierkegaard

“Scrivere è riuscire a dire le cose gravi con frivolezza e quelle leggere con gravità; ci vuole però, il senso dell’ironia e anche quello dell’autoironia.”   Camilla Cederna

“È dall’ironia che comincia la libertà.”   Victor Hugo

“L’ironia è il pudore dell’umanità.” Jules Renard

“Senza ironia, il mondo sarebbe come una foresta senza uccelli.” Anatole France

“L’ironia è un atto di amore e di libertà; è un aiuto a riconoscere i nostri limiti.” Claudio Magris

“A volte un sigaro è soltanto un sigaro”. Sigmund Freud

Parole a 360° – Scopriamo la parola CAOS

Un incontro con parole da indagare, da smontare e rimontare.

Quante volte abbiamo detto: “che caos!”, quante volte abbiamo letto titoli di notizie più o meno allarmanti in cui ricorre il termine CAOS per indicare uno stato di pericolo, di confusione, di smarrimento?

Ognuno può affermare di aver sentito descrivere situazioni problematiche e incerte riguardanti la vita politica, la sanità, la scuola, con espressioni che condensano nella parola caos lo stato di agitazione e di disordine che si vuole rappresentare. In contesti quotidiani si parla di caos nel traffico, nel disbrigo di pratiche amministrative, nell’organizzazione di un evento.

Questo termine, in effetti, cosa significa?

È un termine che trova radici profonde nella cultura o è un’etichetta utile per riferirsi a occasioni di perturbamento?

Proviamo a sciogliere i nodi di questa matassa di fili aggrovigliati tra senso comune e ricerca di significato.

Parlare di caos è trattare di ordine e di disordine, in riferimento all’esperienza di vita individuale, alla società, alla natura, all’universo. Caos e determinazione, caos e prevedibilità sono relazioni sulle quali indaga la scienza.

caos 1

Manzoni ci offre un esempio di utilizzo del termine che a qualcuno potrà sembrare davvero sorprendente.

Renzo va dall’ Azzeccagarbugli.

Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale.

Ho capito, — disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. — Ho capito. — E subito si fece serio, ma d’una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e… appunto, in una dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano.”

Così dicendo, s’alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio.

“Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza. Ah! ecco, ecco.”  Cap. III I Promessi Sposi (A.Manzoni)

«Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente…». La celebre frase pronunciata da Mao durante la Rivoluzione culturale degli anni Sessanta si adatterebbe perfettamente ancor oggi a situazioni politiche ed economiche correlate alle dinamiche di sviluppo di organismi nazionali e sovranazionali. Si tratta di un riferimento al caos e al suo bagaglio di opportunità e di possibilità.

Secondo la Mitologia Caos è uno degli elementi primordiali del mondo, con Eros e Gaia (la Terra).  Caos è la personificazione del Vuoto primordiale, al tempo in cui l’Ordine non era stato ancora imposto agli elementi del mondo. Analizzando il termine (lat. chaos, gr. χάος) nella sua origine linguistica ritroviamo attinenze con l’essere spalancato, aperto. Nel pensiero di Platone il caos ha il significato di miscuglio disordinato, un miscuglio destinato a generare il mondo, il cosmo, come un tutto ordinato in virtù di un principio ordinatore.

Caos è un termine che appartiene alla storia del linguaggio e del pensiero lungo tutto lo svolgersi delle vicende umane nel tempo, un’immagine e un  concetto capace di fornire gli strumenti per leggere e spiegare la realtà.

Non è errato affermare che trattare di caos vuol dire considerare l’origine e l’evoluzione della scienza, proprio perché lo studio della natura ha oscillato intorno alle manifestazioni dell’ordine e del disordine.

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Il Caos magnetico da cui nasce una stella

Dal famoso aforisma di Eraclito “tutto scorre, tutto si trasforma”, dalle riflessioni di Democrito che, come scrive Dante,  «Democrito, che ‘l mondo a caso pone» (Inferno, Canto IV vv 136), la filosofia ha affrontato il tema del divenire come asse portante delle concezioni sulla natura. Il divenire ha occupato un posto fondamentale nello studio dei fenomeni,  …fino agli studi sulla termodinamica, prima scienza della complessità, alle riflessioni di Y. Prigogine, Premio Nobel per la chimica nel 1977.

È stata un’esigenza imprescindibile per l’uomo considerare entro schemi e concetti ciò che è mutevole, immenso, l’eterno e il divenire. Così il caos è riferimento di analisi nei modelli della complessità come teoria, appunto, del caos.

La stessa astronomia fa oggi i conti con il caos dopo essere stata analizzata in termini meccanicistici. Il caos deterministico è l’orizzonte in cui elaborano le loro teorie Edward Lorenz e Henri Poicaré.

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L’effetto farfalla: “lo sfarfallio delle ali di una farfalla può causare uno tsunami dall’altra parte del mondo”. L’effetto farfalla, teorizzato da Edward Lorenz nel 1962, riguarda una teoria per cui se si cambiano eventi minimi lungo la linea del tempo, appartenenti al passato, questi eventi possono avere un’eco, una ripercussione in termini sostanziali nel futuro.

Così dice Henri Poincaré: “Noi scopriremo il semplice sotto il complesso, poi il complesso sotto il semplice, poi di nuovo il semplice sotto il complesso, e così via, senza poter prevedere quale sarà l’ultimo termine. Ma dovremo pure fermarci da qualche parte e, perché la scienza sia possibile, occorre farlo quando si incontra la semplicità. È questo il solo terreno sul quale possiamo innalzare l’edificio delle nostre generalizzazioni. Ma se la semplicità è solo apparente, questo terreno sarà abbastanza solido? È quanto conviene investigare”. H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, Dedalo, Bari (1989)

Teorie riguardanti il caos, nell’evoluzione del pensiero contemporaneo, sono correlate alla sfida della complessità e allo studio dei sistemi complessi. Complessità e caos, infatti, sono usati per indicare interrelazioni imprevedibili, cambiamenti connessi ai grandi mutamenti del nostro tempo e al mondo globalizzato. La pandemia generata dal coronavirus, attualmente, si presenta come manifestazione di disordine globale. L’emergenza ha focalizzato il dibattito sui controlli possibili, sulle criticità che richiedono nuove scelte verso uno sviluppo sostenibile che permetta di far fronte a una improvvisa situazione di pericolo. La scienza è scienza della complessità che apre nuovi orizzonti per tutti i campi dello scibile.

Si deve a Edgar Morin, uno degli interpreti del tema della complessità, l’uso della teoria del caos nelle scienze sociali.  Morin indica essenziale per gli individui assumere la consapevolezza di un destino planetario comune, prodotto dalle interconnessioni tra sviluppo scientifico, tecnico ed economico. Solo con una profonda consapevolezza di questo “destino” sarà possibile per l’uomo interpretare il caos degli eventi, le loro interazioni e diventare protagonista dello sviluppo e del destino dell’umanità. Morin affida questo compito all’educazione che promuove un’intelligenza creativa e rende possibile la necessaria riforma del pensiero.

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Io vi dico: bisogna avere in sé il caos per poter partorire una stella danzante.”

Friedrich NietzscheCosì parlò Zarathustra (1885)

Non inoltriamoci sul rapporto che ha avuto il pensiero di Nietzsche in ordine allo sviluppo della scienza nel XIX secolo e non chiediamoci neppure se la moderna epistemologia trova una via di accesso alla spiegazione dell’esperienza umana avvalendosi del contributo della filosofia di Nietzsche.

Cosa esprime il filosofo con questa asserzione? È una frase suggestiva, un invito a superare se stessi, a cogliere il senso del divenire.

Nessuna frase può essere letta, avulsa dalla complessità di un percorso di riflessione articolato, ma sicuramente possiamo leggere questo invito di  Nietzsche come una  riflessione sulla vita, sul continuo cambiamento, sulla consapevolezza che il pensiero produce per il progetto esistenziale degli esseri umani.

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Caos… Resilienza: elementi per la crescita