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Autore: Francesco Diodato

Francesco Diodato, glottodidatta, è considerato il massimo esperto in Giappone di didattica dell’italiano come lingua straniera. È professore associato presso il Dipartimento di Lingua Italiana della Kyoto Sangyo University. È inoltre coinvolto nella supervisione di progetti di ricerca e di collaborazione internazionale con atenei italiani e in percorsi di formazione glottodidattica. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente i fattori interni allo studente (la motivazione, le convinzioni, l’ansia, ecc.), lo sviluppo dell’autonomia dei discenti, la neurodidattica, la didattica dell’italiano a studenti universitari, l’apprendimento attivo, l’apprendimento collaborativo, il costruttivismo, la gestione della classe, il lavoro in coppia, l’acquisizione della seconda lingua, la formazione dei docenti.

Combattere la noia in classe

Le strategie per accendere la curiosità nell’apprendimento

La NOIA è grande nemica dell’apprendimento, uno studente che si annoia in classe potrebbe decidere di intrattenersi con azioni che esulano dall’attività didattica. L’origine della noia è spesso da individuare nell’inoperosità, pertanto, è indispensabile trasformare gli studenti da semplici spettatori in attori protagonisti, o meglio, da scolari addestrati in ricercatori!

Il Dizionario d’italiano on-line De Mauro sottolinea il ruolo attivo del ricercatore, definendo in questi termini la parolaricerca”: “Attività intellettuale che mira a informarsi su un argomento o a estendere e ad approfondire la conoscenza in modo sistematico”. Il fare ricerca, dunque, implica uno sforzo cognitivo notevole, che verrà ricompensato con un apprendimento più efficace. Lo sforzo richiesto, invece, agli insegnanti è di avere fiducia nella capacità di apprendere dei propri allievi.

L’apatia che sovente si riscontra in classe è anche il frutto di anni di “addestramento” scolastico. Gli studenti sono stati abituati a non interrogarsi, a immagazzinare acriticamente il sapere trasmesso a scuola. L’insegnante che voglia riaccendere la fiamma della curiosità dovrà intraprendere un lungo e paziente lavoro di “riabilitazione”. Esso consiste, in particolare, nel fornire un sostegno minimo e di creare un ambiente collaborativo: così i discenti saranno motivati a far leva sulle proprie facoltà mentali e saranno più curiosi di imparare.

La promozione di un così gravoso lavoro di riabilitazione molto probabilmente incontrerà le resistenze di più apprendenti. In più, un tale approccio orientato alla scoperta richiederà tempo maggiore rispetto all’insegnamento trasmissivo. E maggiore sarà anche il tempo necessario per preparare le lezioni. In breve, le ragioni che potrebbero far desistere i docenti dall’intraprendere questo tipo di percorso possono essere molteplici.

A mio avviso, però, c’è un vantaggio, oltre a quelli già citati, che da solo surclassa tutti gli svantaggi appena menzionati. Le conoscenze nei vari settori diventano sempre più vaste: in classe non c’è il tempo per affrontare tutti gli argomenti, o perlomeno non in maniera approfondita. Inoltre, i cambiamenti e le nuove scoperte richiedono un aggiornamento continuo di tali conoscenze: sarebbe controproducente concentrarsi sulla mera memorizzazione di nozioni che fra qualche anno potrebbero risultare obsolete. Oltretutto, con l’avvento di Internet, il problema non è certo la penuria di informazioni: ciò di cui si ha bisogno è una riflessione su di esse. A partire da queste considerazioni, il compito degli insegnanti non può essere quello di insegnare il “cosa” (il sapere), ma di insegnare il “come” (il saper fare), attraverso il “cosa”.

Si tratta di mostrare come appropriarsi autonomamente di queste conoscenze, attraverso la selezione delle fonti e un’analisi dei dati. Se gli studenti impareranno a fare da sé, saranno in grado di affrontare problemi della società del futuro che oggi non riusciamo neanche a immaginare. È inoltre probabile che questo modo di concepire la didattica concorra ad accrescere la considerazione nei confronti dei docenti nella società: il ruolo di dispensatori del sapere è ormai sorpassato. 

Per aiutare gli studenti a diventare ricercatori, un’attenzione particolare va rivolta al modo in cui rispondere alle domande. Quelle degli scolari addestrati hanno la caratteristica di essere generiche, poiché prive di una riflessione a monte. La domanda tipica è: “È giusto?” Sono domande che hanno come obiettivo quello di impossessarsi della “verità assoluta”, della quale i docenti sarebbero depositari. Completamente diverso è l’atteggiamento degli studenti ricercatori. Non pensano al docente semplicemente come alla sezione delle soluzioni alla fine di un libro di testo. Il docente è uno dei vari strumenti di cui dispongono per completare autonomamente un compito. Perché gli scolari addestrati diventino progressivamente studenti ricercatori, il docente dovrà dunque spiegare che risponderà solo a domande mirate e precise.

Un’altra tendenza degli scolari addestrati è quella di chiedere tutto, o quasi. Per promuoverne il lavoro di ricerca, l’insegnante dovrà dunque limitare la propria disponibilità. Ci sono due modi per farlo, a seconda dei casi. Il primo è quello di non circolare tra i banchi: la vicinanza rende più agevole porre domande. Il secondo è quello di rispondere solo a un numero limitato di quesiti.

Il modo di dare le istruzioni è un altro elemento da considerare. Va usata la seconda persona del verbo, singolare o plurale, a seconda dei casi, e non la prima plurale.  Per esempio, bisognerà dire “Svolgete l’attività”, e non “Svolgiamo l’attività”. In questo modo si sottolinea il fatto che la ricerca è compito esclusivo degli studenti.

Insegnare agli adolescenti

Alcune proposte basate sulla ricerca neuroscientifica

Comprendere l’origine di certi comportamenti può aiutare a vedere gli studenti e le studentesse con altri occhi e a trovare la motivazione necessaria per svolgere al meglio il proprio lavoro. In quest’ottica, gli allievi non sono più individui difettosi, ma individui bisognosi del sostegno dei docenti per diventare cittadini responsabili.

È, per esempio, il caso degli atteggiamenti tipici degli adolescenti. Quello dell’adolescenza sembra essere un periodo di cambiamenti neurobiologici, oltre che fisici. Tali mutamenti interessano in particolare i lobi frontali, il centro direttivo del cervello; iniziano intorno ai 10 anni e si protraggono per qualche decennio.

A causa di questi lavori in corso, i lobi frontali non sono al massimo dell’efficienza e ciò crea degli inconvenienti. Di seguito, riassumerò alcuni di essi e, nel contempo, illustrerò delle proposte per tradurre i risultati delle ricerche neuroscientifiche in pratica didattica.

Maggiore assunzione di rischi se il compito è stimolante
Gli adolescenti agirebbero senza pensarci due volte se un compito li stuzzica. Ciò significa che, per motivarli a partecipare attivamente alle lezioni, sarebbe meglio proporre attività sfidanti, come quelle di problem solving. Al contrario, se trovano la lezione noiosa, la minore capacità di autocontrollo potrebbe impedire loro di concentrarsi sull’attività.

Maggiore assunzione di rischi in presenza dei pari
Poiché gli adolescenti sono in cerca di autonomia dagli adulti (per esempio, dai genitori), i coetanei diventano il punto di riferimento. Il bisogno di accettazione è alto e ciò li spingerebbe ad assumere più rischi in loro presenza. Ciò suggerisce come il lavoro in coppie possa essere particolarmente apprezzato da questo tipo di apprendenti. Tuttavia, tutti dovranno essere messi nella posizione di poter offrire aiuto, oltre che di riceverlo, per essere maggiormente graditi ai compagni: la qualità del lavoro ne gioverà. Per raggiungere questo obiettivo, si potrebbero confezionare più versioni della stessa attività, differenti solo per il grado di difficoltà. In questo modo, anche i discenti con più carenze potranno contribuire alla discussione: la loro versione conterrà più informazioni rispetto a quella dei compagni più preparati.

Maggiore assunzione di rischi in presenza di novità
Gli adolescenti si esporrebbero maggiormente ai rischi se l’esperienza è inedita: probabilmente desiderano imparare il più possibile per rendersi indipendenti. Ci sono due modi per creare esperienze nuove in classe. La prima, ovviamente, è quella di proporre attività mai svolte prima.

La seconda, invece, consiste nel presentare esperienze nuove solo in parte, variando anche un solo elemento. Suggerisco questo espediente nel caso di attività a cui l’insegnante non può rinunciare per la loro efficacia nel raggiungere gli obiettivi prefissi. Per di più, le attività già note sono economiche, in termini di tempo necessario per capire il da farsi; inoltre, gli studenti spesso si sentono più sicuri.

Tra gli elementi modificabili figurano: il luogo (per esempio, qualche volta le attività potrebbero essere svolte all’aperto anziché in aula); i materiali (una volta si può partire da un’immagine; un’altra da un filmato; ecc.); la struttura dell’attività (per esempio, qualche volta si possono cambiare i componenti delle coppie due volte; qualche altra volta tre; ecc.); la sequenziazione delle attività (per esempio, una volta la lezione comincia con un’attività, mentre la volta successiva con un’altra).

Difficoltà a comprendere il significato sociale dei volti
A questa età, lo sviluppo della capacità di comprendere il significato delle espressioni del volto è in corso. Di conseguenza, sarebbe meglio evitare espressioni che si prestano facilmente a molteplici interpretazioni, per evitare di essere fraintesi e sciupare il rapporto. Per esempio, un volto concentrato, stanco o preoccupato, potrebbe essere scambiato per un volto adirato: è più prudente mostrarsi sempre sorridenti.

Difficoltà a concentrarsi
Gli adolescenti si distrarrebbero più facilmente in presenza di uno stimolo nell’ambiente. È compito del docente proteggerli: senza attenzione, non c’è apprendimento. Possono essere fonte di distrazione le aule troppo decorate, gli smartphone, ecc.
Per lo stesso motivo, sarebbe opportuno evitare di mettere in coppia discenti che, se insieme, farebbero fatica a rimanere concentrati sull’attività.

Maggiore difficoltà a gestire lo stress
Durante la fase adolescenziale, gli studenti e le studentesse sarebbero meno abili a controllare lo stress. Quando possibile, sarà necessario evitare situazioni potenzialmente ansiogene. Se in aula regna il caos, la classe non è coesa, il clima che si respira è autoritario e i bisogni e gli interessi degli allievi non vengono presi in considerazione, molto probabilmente il livello di stress degli allievi sarà elevato, con conseguenze negative sull’apprendimento. 

Adattare le attività o proporle in un certo modo è un altro fattore che potrebbe contribuire a contenere lo stress: è importante che non appaiano impossibili o troppo sfidanti. Anche i compiti in classe e le interrogazioni potrebbero essere fonte di stress: avere l’opportunità di discutere delle proprie preoccupazioni con i compagni e di simulare compiti e interrogazioni potrebbe ridurre la tensione.

Memoria di lavoro limitata
Questo tipo di allievi fatica a ricordare: a volte infrange le regole non con questo intento, ma perché le ha dimenticate o perché ha dimenticato le conseguenze a cui andrà incontro. Per correre ai ripari, le regole e le relative conseguenze potrebbero, per esempio, essere attaccate a una parete dell’aula, sempre ben visibili a tutti.

Lavoro in coppie e problem solving

I vantaggi dello studio in coppie

Il lavoro in coppie è, a mio avviso, particolarmente indicato per attività di problem solving perché:

  • ogni studente e studentessa dispone di più tempo per argomentare le proprie idee e per chiedere delucidazioni ai compagni sulle loro;
  • i più timidi possono partecipare senza la paura di fare una brutta figura.

In aggiunta, nel lavoro in coppia la classe impara:

  • a lavorare autonomamente;
  • ad autovalutarsi;
  • ad apprezzare diversi stili di apprendimento e intelligenze (si tratta, in realtà, di due teorie controverse);
  • ad apprezzare diversi punti di vista.

A differenza dei primi due punti, gli ultimi quattro sono ravvisabili anche nel lavoro in gruppo (tre o più studenti). Nel lavoro in gruppo, tuttavia, c’è il rischio di venire esclusi e, inoltre, sottrarsi alle proprie responsabilità diventa più agevole. Esistono degli espedienti per scongiurare tali preoccupazioni, ma produrrebbero, a mio avviso, un’interazione artificiale che limiterebbe l’autonomia degli studenti.

Malgrado queste riflessioni, in determinate situazioni potrebbe essere più produttivo formare uno o più gruppi di tre componenti. Per esempio, per equilibrare una coppia in cui è presente uno studente che è solito monopolizzare la discussione; o per fare in modo che chi vuole partecipare abbia la possibilità di farlo nonostante la presenza di uno studente che tende a isolarsi. Quest’ultima circostanza mi è capitata con uno studente affetto, presumibilmente, da Disturbi dello Spettro Autistico.

Infine, è inevitabile formare un gruppo di tre in classi con un numero dispari di componenti.

Tipi di coppie
Esistono due tipi di coppie: flessibili e fisse. Nel primo caso i componenti delle coppie cambiano una o più volte durante un’attività; nel secondo, la coppia lavora insieme per tutta la durata di un’attività.

Nelle attività di problem solving, le coppie flessibili sono le più adatte: lavorare con più compagni aiuta a esaminare un problema da più prospettive e ad avere un quadro sempre più nitido. È consigliabile, tuttavia, dare inizio al lavoro in coppia solo dopo una fase di lavoro individuale, in modo che i discenti abbiano l’opportunità di sfruttare al massimo le proprie risorse individuali.

Le coppie fisse potrebbero essere l’alternativa migliore in attività in cui si vuole dare l’opportunità di vivere in anticipo certe esperienze: parlando sempre con lo stesso compagno, gli studenti e le studentesse possono approfondire maggiormente. Potrebbero, per esempio, esercitarsi in vista di un’interrogazione (lo studente-insegnante fa le domande e l’altro risponde) o di un’intervista. Con questo tipo di attività, potranno acquisire sicurezza e rendersi più facilmente conto di eventuali lacune. Se entrambi gli studenti hanno la necessità di esercitarsi in entrambi i ruoli e hanno una sola lezione per farlo, si può ricorrere alle coppie flessibili anche in questo caso.

Quando interrompere le attività
È importante che non ci siano tempi morti: se uno studente non è occupato, si annoia; se si annoia, potrebbe comportarsi in modo inappropriato e la lezione diventare caotica. Quando una coppia non ha più nulla da dirsi, sarebbe meglio cambiare immediatamente la formazione di tutte le coppie o, a seconda dei casi, dichiarare terminata l’attività.

L’importanza di cambiare regolarmente la formazione delle coppie
I membri delle coppie non andrebbero cambiati solo durante un’attività, ma anche a ogni cambio di attività. Il fatto di variare le coppie più volte durante una lezione produce ulteriori benefici:

  • la classe diventa più coesa;
  • la motivazione resta alta;
  • il numero di comportamenti inappropriati diminuisce;
  • la creazione di un rapporto di dipendenza tra studenti è più facilmente evitabile.

Costruire i presupposti per il lavoro in coppia: i rompighiaccio
È importante che all’inizio della prima lezione di una classe appena formata il docente svolga un’attività di rompighiaccio. Il rompighiaccio è un’attività in cui gli studenti iniziano a conoscersi e imparano i nomi: spesso ciò non avviene spontaneamente. In questo modo, nei successivi lavori in coppia impiegheranno più energie.

Quando gli studenti non sono abituati a lavorare in coppia
Gli studenti non abituati a lavorare in coppia potrebbero sentirsi disorientati da questa improvvisa autonomia e agire in modo non consono. Per questa ragione, all’inizio si potrebbero proporre attività brevi. Inoltre, le regole devono essere chiare e bisogna intervenire in modo deciso in caso di trasgressione, adottando il sistema delle conseguenze (per un approfondimento, rinvio alle pp. 105-107 di questo articolo).

Vedere il bicchiere mezzo pieno
L’eventuale presenza di studenti che, nonostante tutto, non si danno da fare non dovrebbe far desistere dall’adozione di una modalità di lavoro in coppia: è opportuno focalizzare l’attenzione anche su coloro che invece lavorano con profitto. In ogni caso, tornare alle lezioni in plenum non è la soluzione: l’eventuale compostezza degli studenti durante la spiegazione dell’insegnante non ne prova necessariamente la partecipazione mentale.

La lingua italiana all’estero

L’esperienza di un professore italiano in Giappone

Nonostante una considerevole distanza separi l’Italia e il Giappone, nel Paese del Sol Levante c’è molta lingua italiana. Mi riferisco specialmente al settore commerciale: insegne dei negozi, nomi dei prodotti, ecc. non di rado sono italiani o italianeggianti. Gli errori di ortografia però abbondano e non c’è sempre una corrispondenza semantica tra la parola e l’oggetto. In più, quando le parole sono trascritte in kana, la scrittura fonetica giapponese, la pronuncia si discosta, almeno in parte, dall’originale. Ciò avviene per l’impossibilità di riprodurre fedelmente i suoni italiani con questo sistema e, verosimilmente, per semplificare la pronuncia italiana adattandola a quella giapponese. In altri termini, la correttezza non è una priorità: ciò che conta è che le parole stabiliscano un contatto con l’Italia e con tutto ciò che essa evoca.

Quanto è diffuso l’insegnamento della lingua italiana?

Per rispondere a questa domanda, partirò dai dati raccolti qualche anno fa dal Ministry of Education, Culture, Sports, Science and Technology.

Tra le scuole secondarie di primo grado, 1 offre corsi d’italiano. L’italiano si posiziona così al settimo e ultimo posto dopo l’inglese, il francese, il cinese, il coreano, lo spagnolo e il tedesco, per numero di scuole nelle quali questo insegnamento è impartito.

Le scuole secondarie di secondo grado nelle quali sono presenti corsi di lingua italiana sono 13. L’italiano occupa una posizione simile alla precedente: è all’ottavo posto dopo l’inglese, il cinese, il coreano, il francese, il tedesco, lo spagnolo e il russo. È seguito da una decina di lingue, per la maggior parte asiatiche; tra le europee figura il portoghese.

All’università le cose non cambiano. L’italiano viene insegnato in 111 università (il 15,1% del totale) e si posiziona all’ottavo posto dopo l’inglese, il cinese, il francese, il coreano, il tedesco, lo spagnolo e il russo. È seguito da poche altre lingue, tra le quali, ancora una volta, troviamo il portoghese.

Le università che offrono corsi d’italiano generalmente sono quelle nelle quali ci si specializza in musica e nelle belle arti. Ci sono anche 6 università nelle quali è possibile specializzarsi proprio nella nostra lingua.

La lingua italiana si insegna anche in alcune scuole professionali (si tratta di scuole per accedere alle quali è necessario almeno un diploma di scuola secondaria di secondo grado) e al Foreign Service Training Institute del Ministry of Foreign Affairs: è il luogo nel quale vengono formati i diplomatici giapponesi.

Ci sono corsi di lingua italiana anche presso associazioni italo-giapponesi, la Società Dante Alighieri e l’Istituto Italiano di Cultura.

L’italiano si insegna inoltre presso diverse scuole private di lingue. Secondo alcune vecchie statistiche fornite dal Ministry of Economy, Trade and Industry, i corsi d’italiano sono offerti dal 9,3% di esse (su un totale di 1.200 scuole oggetto dell’indagine). L’italiano occupa, così, la settima posizione, dopo l’inglese, il cinese, il francese, lo spagnolo, il tedesco e il coreano.

La seguente è una lista non esaustiva di scuole e istituti, suddivisi per città, nei quali si insegna esclusivamente o principalmente l’italiano.

Kyoto

1. Centro Culturale Italo Giapponese 

2.  Scholarum

Nagoya

1. Nagoya Nichii Gakuin 

2. Scuola Ambrosia 

Osaka

1. Centro Culturale Italo Giapponese 

2. Ciao amici 

3. Istituto Italiano di Cultura – Osaka 

4. Osaka-Nichii Gakuin

5. Società Dante Alighieri Comitato di Osaka 

Tokyo

1. Associazione italo-giapponese 

2. Bell’Italia 

3. Il Centro – Società Dante Alighieri Comitato di Tokyo

4. Istituto italo-giapponese 

5. Istituto Italiano di Cultura – Tokyo

6. Linguaviva

7. piazzaItalia 

Diversi insegnanti lavorano (anche) in privato. Per trovare studenti, spesso si registrano gratuitamente su appositi siti. Ne segnalo due:

1. GetStudents.net

2. Hello-Sensei 

L’italiano si può imparare anche alla televisione o alla radio, insieme all’inglese, al francese, al cinese, allo spagnolo, al coreano, al tedesco, al russo, all’arabo e al portoghese (le ultime tre solo alla radio).

I dati sopra riportati mostrano come la lingua italiana sia riuscita a conquistarsi una posizione di tutto rispetto. Tuttavia, attrae un numero ristretto di persone se paragonata ad altre lingue: il motivo probabilmente è da ricercare nel fatto che non è una lingua di lavoro, ma di cultura.

Chi insegna italiano?

Spesso una formazione glottodidattica non costituisce un requisito indispensabile per insegnare l’italiano: è sufficiente essere di madrelingua italiana, forse in parte per la difficoltà a reperire un numero congruo di docenti qualificati.

Molti scelgono di insegnare per ripiego, perlomeno all’inizio. Qualcun altro lo fa per arrotondare: rimasi perplesso quando, anni fa, una studentessa mi chiese: “Ma tu… che lavoro fai?”

Per insegnare italiano, bisogna essere pronti a spostarsi molto: le scuole, le università, ecc. in genere possono offrire solo poche lezioni e questo rende necessario lavorare in più scuole per poter sbarcare il lunario.

Chi studia italiano?

Nella mia esposizione prenderò in considerazione solo gli studenti adulti e anziani, e gli studenti universitari, poiché sono le categorie a me note, nonché le più comuni.

Studenti adulti e anziani

Chi studia italiano per scelta, come coloro che frequentano una scuola privata di lingue, solitamente è mosso da un genuino interesse per l’Italia. Questi studenti, spesso adulti o anziani, sono affascinati dal nostro patrimonio enogastronomico, artistico o naturale, dall’opera lirica, e così via. Questa attenzione verso la nostra cultura non sempre si traduce in dedizione allo studio; tuttavia, ritengo che, mediamente, questa tipologia di studenti sia più motivata degli studenti universitari. I problemi di disciplina, poi, sono sporadici: l’impegno richiesto al docente nella gestione della classe è minore. Maggiori, però, sono le energie da spendere per adattare attività non tradizionali, a causa di una certa diffidenza verso certe metodologie.

Studenti universitari

All’università, molti non studiano l’italiano per un’attrazione particolare nei confronti della lingua o del Paese; la possibilità che l’italiano torni utile nel mondo del lavoro è poi remota. Tra i miei vecchi studenti che apprendevano l’italiano come materia secondaria, alcuni riferivano che la scelta era caduta sull’italiano perché per un giapponese la pronuncia è più facile di altre lingue. Tra gli studenti che invece si specializzavano in italiano, alcuni dichiaravano che si trattava di un ripiego, non essendo riusciti a superare l’esame di ammissione dell’università alla quale aspiravano.

Molti studenti universitari che manifestano un interesse nei confronti del nostro Paese rivelano motivazioni a mio avviso deboli. Per esempio, c’era chi  aveva scelto di studiare l’italiano perché non poteva rinunciare al gelato; chi sognava di girare per Roma in Vespa come Audrey Hepburn nel film “Vacanze romane”; chi alla scuola secondaria di secondo grado aveva avuto un insegnante d’inglese originario dell’Italia giudicato “figo”.  

La bassa motivazione spesso si abbina a comportamenti poco lodevoli: c’è chi parla di fatti privati con un compagno; chi usa lo smartphone per scopi che esulano dall’attività didattica; chi si trucca; chi è indisponente; chi si reca puntualmente in bagno; ecc.

Ho notato, tuttavia, che è più facile far accettare una metodologia non tradizionale agli universitari che agli adulti e agli anziani. In parte, ciò presumibilmente è dovuto a una maggiore flessibilità cognitiva associata alla giovane età. Sospetto, però, che il motivo sia da ricercarsi anche altrove: nel fatto che nelle lezioni non tradizionali, ai loro occhi, non si studia, almeno non secondo l’accezione che loro danno al termine: memorizzazione di liste di parole e di regole grammaticali; e nel fatto che nelle attività proposte si tratta principalmente di praticare la lingua parlata (in qualità di madrelingua, mi vengono assegnati i cosiddetti “corsi di conversazione”), piuttosto che quella scritta: attraverso l’interazione con un compagno, si rendono più facilmente conto dell’utilità delle attività, con conseguente incremento della motivazione.

C’è un altro tratto che differenzia gli universitari dagli adulti e gli anziani: il fatto che i primi devono ricevere un voto. È al momento della valutazione che potrebbero riaffiorare delle convinzioni limitanti.
Per esempio, gli studenti potrebbero imputare le cause del deludente risultato alla metodologia e al fatto che l’insegnante non aveva esplicitato quali parole e regole grammaticali sarebbero state oggetto dell’esame di produzione orale. Con l’esperienza s’impara a prevenire molte di queste obiezioni: per esempio, nel secondo caso io dico che non mi interessa quali parole e regole grammaticali useranno correttamente, ma quante: questo, in genere, li tranquillizza.

 Francesco Diodato

 

Francesco Diodato, glottodidatta, è considerato il massimo esperto in Giappone di didattica dell’italiano come lingua straniera. È professore associato presso il Dipartimento di Lingua Italiana della Kyoto Sangyo University.

È inoltre coinvolto nella supervisione di progetti di ricerca e di collaborazione internazionale con atenei italiani e in percorsi di formazione glottodidattica.

I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente i fattori interni allo studente (la motivazione, le convinzioni, l’ansia, ecc.), lo sviluppo dell’autonomia dei discenti, la neurodidattica, la didattica dell’italiano a studenti universitari, l’apprendimento attivo, l’apprendimento collaborativo, il costruttivismo, la gestione della classe, il lavoro in coppia, l’acquisizione della seconda lingua, la formazione dei docenti.