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Tag: didattica

Combattere la noia in classe

Le strategie per accendere la curiosità nell’apprendimento

La NOIA è grande nemica dell’apprendimento, uno studente che si annoia in classe potrebbe decidere di intrattenersi con azioni che esulano dall’attività didattica. L’origine della noia è spesso da individuare nell’inoperosità, pertanto, è indispensabile trasformare gli studenti da semplici spettatori in attori protagonisti, o meglio, da scolari addestrati in ricercatori!

Il Dizionario d’italiano on-line De Mauro sottolinea il ruolo attivo del ricercatore, definendo in questi termini la parolaricerca”: “Attività intellettuale che mira a informarsi su un argomento o a estendere e ad approfondire la conoscenza in modo sistematico”. Il fare ricerca, dunque, implica uno sforzo cognitivo notevole, che verrà ricompensato con un apprendimento più efficace. Lo sforzo richiesto, invece, agli insegnanti è di avere fiducia nella capacità di apprendere dei propri allievi.

L’apatia che sovente si riscontra in classe è anche il frutto di anni di “addestramento” scolastico. Gli studenti sono stati abituati a non interrogarsi, a immagazzinare acriticamente il sapere trasmesso a scuola. L’insegnante che voglia riaccendere la fiamma della curiosità dovrà intraprendere un lungo e paziente lavoro di “riabilitazione”. Esso consiste, in particolare, nel fornire un sostegno minimo e di creare un ambiente collaborativo: così i discenti saranno motivati a far leva sulle proprie facoltà mentali e saranno più curiosi di imparare.

La promozione di un così gravoso lavoro di riabilitazione molto probabilmente incontrerà le resistenze di più apprendenti. In più, un tale approccio orientato alla scoperta richiederà tempo maggiore rispetto all’insegnamento trasmissivo. E maggiore sarà anche il tempo necessario per preparare le lezioni. In breve, le ragioni che potrebbero far desistere i docenti dall’intraprendere questo tipo di percorso possono essere molteplici.

A mio avviso, però, c’è un vantaggio, oltre a quelli già citati, che da solo surclassa tutti gli svantaggi appena menzionati. Le conoscenze nei vari settori diventano sempre più vaste: in classe non c’è il tempo per affrontare tutti gli argomenti, o perlomeno non in maniera approfondita. Inoltre, i cambiamenti e le nuove scoperte richiedono un aggiornamento continuo di tali conoscenze: sarebbe controproducente concentrarsi sulla mera memorizzazione di nozioni che fra qualche anno potrebbero risultare obsolete. Oltretutto, con l’avvento di Internet, il problema non è certo la penuria di informazioni: ciò di cui si ha bisogno è una riflessione su di esse. A partire da queste considerazioni, il compito degli insegnanti non può essere quello di insegnare il “cosa” (il sapere), ma di insegnare il “come” (il saper fare), attraverso il “cosa”.

Si tratta di mostrare come appropriarsi autonomamente di queste conoscenze, attraverso la selezione delle fonti e un’analisi dei dati. Se gli studenti impareranno a fare da sé, saranno in grado di affrontare problemi della società del futuro che oggi non riusciamo neanche a immaginare. È inoltre probabile che questo modo di concepire la didattica concorra ad accrescere la considerazione nei confronti dei docenti nella società: il ruolo di dispensatori del sapere è ormai sorpassato. 

Per aiutare gli studenti a diventare ricercatori, un’attenzione particolare va rivolta al modo in cui rispondere alle domande. Quelle degli scolari addestrati hanno la caratteristica di essere generiche, poiché prive di una riflessione a monte. La domanda tipica è: “È giusto?” Sono domande che hanno come obiettivo quello di impossessarsi della “verità assoluta”, della quale i docenti sarebbero depositari. Completamente diverso è l’atteggiamento degli studenti ricercatori. Non pensano al docente semplicemente come alla sezione delle soluzioni alla fine di un libro di testo. Il docente è uno dei vari strumenti di cui dispongono per completare autonomamente un compito. Perché gli scolari addestrati diventino progressivamente studenti ricercatori, il docente dovrà dunque spiegare che risponderà solo a domande mirate e precise.

Un’altra tendenza degli scolari addestrati è quella di chiedere tutto, o quasi. Per promuoverne il lavoro di ricerca, l’insegnante dovrà dunque limitare la propria disponibilità. Ci sono due modi per farlo, a seconda dei casi. Il primo è quello di non circolare tra i banchi: la vicinanza rende più agevole porre domande. Il secondo è quello di rispondere solo a un numero limitato di quesiti.

Il modo di dare le istruzioni è un altro elemento da considerare. Va usata la seconda persona del verbo, singolare o plurale, a seconda dei casi, e non la prima plurale.  Per esempio, bisognerà dire “Svolgete l’attività”, e non “Svolgiamo l’attività”. In questo modo si sottolinea il fatto che la ricerca è compito esclusivo degli studenti.

Educare alla pace e allo sviluppo

Giornata internazionale dell’educazione

L’educazione è un diritto umano, un bene sociale e una responsabilità pubblica.
L’iscrizione nelle scuole primarie nei Paesi in via di sviluppo ha raggiunto il 91%, ma 57 milioni di bambini ne sono ancora esclusi. Si calcola che il 50% dei bambini e delle bambine che possiedono un’età per ricevere l’istruzione primaria ma che non frequentano la scuola vive in zone colpite da conflitti. Nel mondo, 103 milioni di giovani non possiedono capacità di base in lettura e scrittura, di cui oltre il 60% donne (dati UNICEF).

La giornata internazionale dell’educazione, che si celebra il 24 gennaio, secondo la determinazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, rappresenta un appuntamento istituzionale di grande rilievo per riflettere sul ruolo dell’educazione alla pace e allo sviluppo nel mondo.

L’educazione si può definire, secondo parametri aperti e interrelati, come diritto dell’individuo, come bene della comunità e soprattutto come responsabilità politica. L’educazione, come finalità, definisce, oltre l’orizzonte della formazione e dello sviluppo della personalità, traguardi irrinunciabili connessi alla di tutela e alla protezione dei minori e dei soggetti più vulnerabili. I rischi sono quelli dell’esclusione, della marginalizzazione, dello sfruttamento e della violenza.

Il diritto all’istruzione è stato disciplinato per la prima volta a livello internazionale, al di là di quanto già previsto dalle normative statali, nell’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948.  In tale articolo viene affermato che ogni individuo ha diritto all’istruzione e che tale istruzione deve essere gratuita per alcuni gradi, obbligatoria e alla portata di tutti.

Chi non ha accesso all’istruzione non sa nemmeno quali sono i propri diritti, né sa come difenderli. Così la mancanza d’istruzione è alla base di molte violazioni dei diritti umani, tra cui il diritto al lavoro.

 

ALCUNI DATI
Oggi 258 milioni di bambini e giovani ancora non frequentano la scuola; 617 milioni di bambini e adolescenti non sanno leggere e fare matematica di base; meno del 40% delle ragazze dell’Africa subsahariana completa la scuola secondaria inferiore e circa quattro milioni di bambini e giovani rifugiati non vanno a scuola. Il loro diritto all’istruzione viene violato e negato.

Questi dati sono confermati dall’Istituto di Statistica dell’UNESCO (UIS) che rileva come i numeri si riferiscano, nel 2018, ai bambini e agli adolescenti esclusi dal sistema sia per l’impossibilità di accesso, sia per abbandono scolastico. Di questi, 59 milioni di bambini sono esclusi dalla scuola primaria, 62 milioni dalla secondaria inferiore e 138 milioni dalla scuola secondaria superiore, e tra essi, la maggioranza viene rilevata nell’Africa subsahariana.

Tale situazione è stata ulteriormente aggravata e compromessa dai cambiamenti che la pandemia da covid-19 ha prodotto a livello sociale imponendo la chiusura delle scuole e la didattica a distanza.

A parte alcuni margini positivi nei dati che riguardano la diminuzione del gender gap, è ipotizzabile che negli anni la situazione non supererà quelle criticità che riguardano la possibilità di frequentare la scuola e avere accesso all’istruzione. Si prevede, anzi, che peggiorerà a causa della crisi in corso. Nel 2020 si è infatti calcolato come il 90% degli studenti sia rimasto a casa in ottemperanza alle misure preventive anti-contagio e che almeno 500 milioni di studenti siano stati, e siano tuttora, privi di accesso alla didattica a distanza. 

L’iscrizione nelle scuole primarie nei Paesi in via di sviluppo ha raggiunto il 91%, ma 57 milioni di bambini ne sono ancora esclusi.

Si calcola che il 50% dei bambini che possiedono un’età per ricevere l’istruzione primaria ma che non frequentano la scuola vive in zone colpite da conflitti

Nel mondo, 103 milioni di giovani non possiedono capacità di base in lettura e scrittura, di cui oltre il 60% donne.

Questi due dati bastano a rendere chiaro quanto sia a rischio il futuro di milioni di bambini, bambine, ragazzi e ragazze, per cui la garanzia del diritto all’istruzione rappresenta l’ultimo riparo contro esclusione, marginalizzazione, sfruttamento e violenze.

 

IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE NELLA SCUOLA
Caratteristiche fondamentale del diritto all’istruzione, assunte come standard minimi che non devono essere violati riguardano la disponibilità delle strutture e dei materiali, l’accessibilità, l’accettabilità, l’adattabilità dell’educazione nel suo complesso, perché l’istruzione non può essere un qualcosa di statico, ma necessita di un adattamento costante ai bisogni e ai cambiamenti della comunità e della società in cui opera, e degli studenti a cui si riferisce, sia sotto il profilo culturale che sociale. 

A partire da questi principi si è giunti nel 1989, per successivi sviluppi normativi, all’approvazione della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia che prevede il rispetto e la tutela del Diritto all’Educazione con l’art. 28 e l’art. 29.

 Dall’affermazione del diritto all’educazione che vede la scuola come luogo istituzionalmente riconosciuto per l’affermazione dell’istruzione obbligatoria, oggi la valenza del concetto di educazione si è ampliata fino a comprendere obiettivi di inclusione, di accoglienza, di promozione del benessere psico-sociale ed emotivo.

L’alfabetizzazione da strumentale, definita dalle competenze del leggere, scrivere e far di conto, si è arricchita di aspetti legati allo sviluppo sociale e tecnologico, con l’affermazione della necessità di un’alfabetizzazione tecnologica e digitale.

Educare nel nostro tempo è educare alla creatività, al pensiero critico, alla relazione, alla capacità di essere resilienti, dando forza agli obiettivi dell’Agenda 2030.

Il Goal 4, infatti, recita: “Assicurare un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti.”.

Una serie di parole chiave che non possono rimanere definizioni, anzi, costituire le priorità dell’agenda politica.

La giornata internazionale dell’educazione deve servire a sottolineare i traguardi da raggiungere entro il 2030.

L’educazione, preclusa a molte bambine e a molti bambini, soprattutto nei paesi più poveri, è fondamentale non solo per la crescita dei singoli individui, ma anche per lo sviluppo dell’intera società, perché rappresenta lo strumento più valido per combattere povertà, disuguaglianze, emarginazione e sfruttamento.

L’istruzione è l’arma più potente che puoi utilizzare per cambiare il mondo. È grazie all’istruzione che la figlia di un contadino può diventare medico, il figlio di un minatore il capo miniera o un bambino nato in una famiglia povera il presidente di una grande nazione.

Nelson Rolihlahla Mandela, (1918-2013), primo Presidente nero Sudafrica, Nobel per la pace 1993

Insegnare agli adolescenti

Alcune proposte basate sulla ricerca neuroscientifica

Comprendere l’origine di certi comportamenti può aiutare a vedere gli studenti e le studentesse con altri occhi e a trovare la motivazione necessaria per svolgere al meglio il proprio lavoro. In quest’ottica, gli allievi non sono più individui difettosi, ma individui bisognosi del sostegno dei docenti per diventare cittadini responsabili.

È, per esempio, il caso degli atteggiamenti tipici degli adolescenti. Quello dell’adolescenza sembra essere un periodo di cambiamenti neurobiologici, oltre che fisici. Tali mutamenti interessano in particolare i lobi frontali, il centro direttivo del cervello; iniziano intorno ai 10 anni e si protraggono per qualche decennio.

A causa di questi lavori in corso, i lobi frontali non sono al massimo dell’efficienza e ciò crea degli inconvenienti. Di seguito, riassumerò alcuni di essi e, nel contempo, illustrerò delle proposte per tradurre i risultati delle ricerche neuroscientifiche in pratica didattica.

Maggiore assunzione di rischi se il compito è stimolante
Gli adolescenti agirebbero senza pensarci due volte se un compito li stuzzica. Ciò significa che, per motivarli a partecipare attivamente alle lezioni, sarebbe meglio proporre attività sfidanti, come quelle di problem solving. Al contrario, se trovano la lezione noiosa, la minore capacità di autocontrollo potrebbe impedire loro di concentrarsi sull’attività.

Maggiore assunzione di rischi in presenza dei pari
Poiché gli adolescenti sono in cerca di autonomia dagli adulti (per esempio, dai genitori), i coetanei diventano il punto di riferimento. Il bisogno di accettazione è alto e ciò li spingerebbe ad assumere più rischi in loro presenza. Ciò suggerisce come il lavoro in coppie possa essere particolarmente apprezzato da questo tipo di apprendenti. Tuttavia, tutti dovranno essere messi nella posizione di poter offrire aiuto, oltre che di riceverlo, per essere maggiormente graditi ai compagni: la qualità del lavoro ne gioverà. Per raggiungere questo obiettivo, si potrebbero confezionare più versioni della stessa attività, differenti solo per il grado di difficoltà. In questo modo, anche i discenti con più carenze potranno contribuire alla discussione: la loro versione conterrà più informazioni rispetto a quella dei compagni più preparati.

Maggiore assunzione di rischi in presenza di novità
Gli adolescenti si esporrebbero maggiormente ai rischi se l’esperienza è inedita: probabilmente desiderano imparare il più possibile per rendersi indipendenti. Ci sono due modi per creare esperienze nuove in classe. La prima, ovviamente, è quella di proporre attività mai svolte prima.

La seconda, invece, consiste nel presentare esperienze nuove solo in parte, variando anche un solo elemento. Suggerisco questo espediente nel caso di attività a cui l’insegnante non può rinunciare per la loro efficacia nel raggiungere gli obiettivi prefissi. Per di più, le attività già note sono economiche, in termini di tempo necessario per capire il da farsi; inoltre, gli studenti spesso si sentono più sicuri.

Tra gli elementi modificabili figurano: il luogo (per esempio, qualche volta le attività potrebbero essere svolte all’aperto anziché in aula); i materiali (una volta si può partire da un’immagine; un’altra da un filmato; ecc.); la struttura dell’attività (per esempio, qualche volta si possono cambiare i componenti delle coppie due volte; qualche altra volta tre; ecc.); la sequenziazione delle attività (per esempio, una volta la lezione comincia con un’attività, mentre la volta successiva con un’altra).

Difficoltà a comprendere il significato sociale dei volti
A questa età, lo sviluppo della capacità di comprendere il significato delle espressioni del volto è in corso. Di conseguenza, sarebbe meglio evitare espressioni che si prestano facilmente a molteplici interpretazioni, per evitare di essere fraintesi e sciupare il rapporto. Per esempio, un volto concentrato, stanco o preoccupato, potrebbe essere scambiato per un volto adirato: è più prudente mostrarsi sempre sorridenti.

Difficoltà a concentrarsi
Gli adolescenti si distrarrebbero più facilmente in presenza di uno stimolo nell’ambiente. È compito del docente proteggerli: senza attenzione, non c’è apprendimento. Possono essere fonte di distrazione le aule troppo decorate, gli smartphone, ecc.
Per lo stesso motivo, sarebbe opportuno evitare di mettere in coppia discenti che, se insieme, farebbero fatica a rimanere concentrati sull’attività.

Maggiore difficoltà a gestire lo stress
Durante la fase adolescenziale, gli studenti e le studentesse sarebbero meno abili a controllare lo stress. Quando possibile, sarà necessario evitare situazioni potenzialmente ansiogene. Se in aula regna il caos, la classe non è coesa, il clima che si respira è autoritario e i bisogni e gli interessi degli allievi non vengono presi in considerazione, molto probabilmente il livello di stress degli allievi sarà elevato, con conseguenze negative sull’apprendimento. 

Adattare le attività o proporle in un certo modo è un altro fattore che potrebbe contribuire a contenere lo stress: è importante che non appaiano impossibili o troppo sfidanti. Anche i compiti in classe e le interrogazioni potrebbero essere fonte di stress: avere l’opportunità di discutere delle proprie preoccupazioni con i compagni e di simulare compiti e interrogazioni potrebbe ridurre la tensione.

Memoria di lavoro limitata
Questo tipo di allievi fatica a ricordare: a volte infrange le regole non con questo intento, ma perché le ha dimenticate o perché ha dimenticato le conseguenze a cui andrà incontro. Per correre ai ripari, le regole e le relative conseguenze potrebbero, per esempio, essere attaccate a una parete dell’aula, sempre ben visibili a tutti.

Debate: la valutazione

Giudicare e valutare il dibattito

GIUDICARE E VALUTARE UN DIBATTITO
“Bravi. Interessante dibattito!” Questa è l’espressione più comune con la quale si dichiara chiuso un dibattito e si invita l’uditorio ad un applauso collettivo quale segno di riconoscimento per lo sforzo compiuto. Ma dietro quelle semplici parole si nasconde un mondo molto complesso che è quello della valutazione.

La parola italiana “valutare” indica un insieme delicato di operazioni che hanno oggetti, attori e scopi diversi. Ciò vuol dire prendere in considerazione alcune questioni di fondo: cosa si valuta? Chi valuta? Con quale obiettivo?

Per rispondere a queste domande dobbiamo innanzitutto partire da una distinzione sostanziale tra Dibattito Curricolare e Dibattito competitivo poiché la valutazione si svolge su due piani paralleli e differenti: il percorso didattico e la disputa. Con il prima si valutano le abilità sviluppate dagli studenti, con il secondo la performance e porta a designare una squadra vincitrice. Ciascuna azione fa riferimento a differenti parametri di valutazione e a differenti soggetti coinvolti.

Cercheremo di chiarire questi aspetti seguendo i due diversi piani di sviluppo.

COSA SI VALUTA?

  1. Nel dibattito curricolare

A scuola si finisce per studiare solo quello che viene valutato. Per esempio, se l’insegnante nelle verifiche tiene conto solo della grammatica, gli studenti e le studentesse studieranno soltanto le regole di grammatica. Se nelle verifiche di storia si chiederanno fatti e date, gli studenti focalizzeranno l’attenzione solo su quelle. Il dibattito richiede però abilità molto complesse, che coinvolgono strutture e funzioni del linguaggio, abilità logiche, padronanza dei contenuti, abilità relazionali.

Affinché la valutazione sia efficace e formativa, si presuppongono le seguenti fasi:

1) declinazione di obiettivi cognitivi ben definiti; 2) pianificazione di attività didattiche volte al conseguimento di tali obiettivi; 3) valutazione in itinere per monitorare la progressiva acquisizione degli obiettivi programmati.

Le prove saranno, come in ogni percorso, sia diagnostiche, sia formative che sommative, ovvero iniziali, in itinere e finali. In questo contesto è possibile prevedere prove o valutazioni che siano espressamente focalizzate sui contenuti, sulle funzioni della lingua, sulla capacità di lavorare in team, sulle abilità comunicative.

Esempi di obiettivi cognitivi per studenti della scuola del primo ciclo, focalizzati sulle competenze orali, possono essere:

  1. Formulare frasi complete;
  2. Utilizzare consapevolmente connettivi logici;
  3. Disporre in sequenze logiche le idee;
  4. Formulare un’introduzione al discorso;
  5. Formulare una conclusione;
  6. Proporre idee all’interno del gruppo di lavoro.

Una chiara lista di obiettivi cognitivi aiuta il/la docente a comporre una checklist di valutazione che lo guiderà in tutte le fasi di sviluppo dei suoi studenti. Si partirà da una prima fase diagnostica per verificare i livelli di partenza della classe e si giungerà ad una valutazione sommativa al fine di accertare le competenze acquisite. Il percorso di sviluppo abbraccerà l’intero anno scolastico.

Un esempio di checklist potrebbe essere la seguente:

INDICATORI

X

1. Ha formulato frasi complete

   

2. Utilizza connettori logici

   

3. Ha formulato l’introduzione

   

4. Ha formulato la conclusione

   

5. Cita le fonti

   

6. Mantiene un contatto visivo

   

La checklist proposta potrà essere cambiata e adattata all’attività svolta in classe, all’età degli studenti e soprattutto agli obiettivi fissati in sede di programmazione.

  1. Nel dibattito competitivo

La valutazione in questo caso si concentra solo sul dibattito e questo impone un significativo cambio di prospettiva. Si tratta di stabilire quali siano le questioni importanti su cui valutare l’intero dibattito.
I parametri utilizzati nel modello World School Debate sono sostanzialmente tre: il contenuto, lo stile e la strategia[1].
In teoria il massimo punteggio che viene assegnato ad ogni intervento principale è 100, invece per la replica finale 50. Tuttavia, nella pratica anche a livello internazionale si attribuisce un massimo di 80 punti per gli interventi principali e 40 per i discorsi di replica.

Ciascun punteggio complessivo viene ripartito in una scala di valori come riportato nelle seguenti tabelle:

DISCORSO COSTRUTTIVO

Contenuto

Stile

Strategia

Totale

Eccellente

32

32

16

80

Ottimo

31

31

16

78

Superiore alla media

30

30

15

75

Nella media

28

28

14

70

Inferiore alla media

26

26

13

65

Migliorabile

23

23

12

60

DISCORSO DI REPLICA

Contenuto

Stile

Strategia

Totale

Eccellente

16

16

8

40

Buono

15

15

8

38

Nella media

14

14

7

35

Migliorabile

13

13

4

30

Esaminiamo sinteticamente il significato di ciascun parametro:

Contenuto: riguarda la qualità e la quantità delle informazioni, dei ragionamenti e delle prove presentati durante i discorsi. Secondo questi criteri si valuta sia l’argomentazione, sia la confutazione. Infine, quando si parla di qualità si fa riferimento alla rilevanza, alla ragionevolezza e all’accettabilità di fonti e informazioni.

Stile: è il modo con cui gli oratori espongono il discorso. Attiene alla postura, alla gestualità, allo sguardo e alla voce utilizzati nel corso del dibattito. Se ne valuta la funzionalità e la coerenza rispetto al contenuto. Non rientrano nei parametri di valutazione eventuali influssi dialettali.

Strategia: fa riferimento a due aree principali. La prima riguarda il rispetto delle tempistiche, del ruolo e della struttura dell’intervento. La seconda riguarda la coerenza e coesione tra i diversi interventi.

CHI VALUTA?

  1. Nel dibattito curricolare

Gli atti di cui si compone la valutazione non sono mai unidirezionali, non dipendono tutti necessariamente dall’insegnante, ma possono assumere la forma di autovalutazione o di valutazione fra pari.
Esiste quindi una valutazione formativa svolta dal docente. Una prerogativa fondamentale affinché il docente stesso possa rendersi conto dell’efficacia della propria azione didattica e al tempo stesso dei progressi fatti dagli alunni e delle alunne.
Esiste anche una valutazione formativa svolta dal singolo studente. Infatti, le stesse checklist di valutazione utilizzate dal docente possono essere compilate dagli studenti per svolgere una significativa riflessione sulle eventuali difficoltà o sullo sviluppo delle proprie abilità.
Un’accurata distinzione tra il percorso formativo e la gara di dibattito eviterà di danneggiare gli allievi più fragili e soprattutto di alimentare l’idea che il Debate sia adatto solo a studenti che hanno una predisposizione naturale all’eloquenza. Invece monitorare e valorizzare i progressi di ciascuno significa far passare l’idea che tutti possono migliorare rispetto ai propri livelli di partenza, indipendentemente dalla possibilità di vincere o perdere una gara di dibattito.

  1. Nel dibattito competitivo

Nel dibattito competitivo è la giuria che decreta la squadra vincitrice. Alla giuria possono prendere parte sia i docenti, sia gli studenti. In ogni caso, vista la delicatezza e la complessità di questo ruolo è necessario che tutti i componenti siano consapevoli dei criteri di valutazione e sappiano come applicarli. Un utile suggerimento è quello di prendere nota dello svolgimento del dibattito: trascrivere, anche in modo abbreviato, quanto vene detto in fase dibattimentale, consente al giudice di avere riferimenti precisi sui ragionamenti, prove, esempi e citazioni.

Non esiste un modo univoco per trascrivere il dibattito, questo dipende dalle capacità di sintesi e di memorizzazione di ciascun giudice. Generalmente si divide un ampio foglio formato A3 in 6 colonne e in ciascuna colonna si riportano gli interventi dei 3 oratori PRO e dei 3 oratori CONTRO. Questa modalità permette un’accurata ricostruzione della linea argomentativa della squadra e al tempo stesso un confronto immediato tra i vari interventi.

QUALE OBIETTIVO?
Rispondere a questa domanda vuol dire riconoscere all’attività di dibattito tutta la sua funzione educativa e formativa. Infatti, sia nel Debate curricolare sia nel Debate competitivo l’obiettivo principale da perseguire è la crescita e lo sviluppo dei nostri studenti. Per questo motivo al termine di ogni attività curricolare o competitiva è opportuno che il docente fornisca una “restituzione del giudizio agli studenti.

La restituzione è quindi un feedback che viene espresso a conclusione dell’attività o della gara. Dai consigli che il docente saprà dare agli studenti dipenderanno i progressi successivi. Questo mette chiaramente in luce come la garanzia di miglioramento dipende dalla qualità del messaggio trasmesso. Giudizi superficiali, generici o molto critici, potrebbero demotivare gli allievi verso un progressivo miglioramento e un crescente entusiasmo nel Debate, poiché non viene loro riconosciuto l’impegno speso nelle attività.

Alcuni utili suggerimenti, forniti da Shute[2], utili da tenere a mente in fase di restituzione, possono essere così sintetizzati:

1. Si eviti la lode o il biasimo dello studente: il giudizio deve riguardare non la persona, ma il compito da lui svolto. Si dovrà quindi spiegare il motivo per cui si ritiene valido o meno un discorso.

2. Le informazioni devono essere specifiche, comprensibili e non generiche. Utilissimi sono i riferimenti al materiale introdotto durante il dibattito, questo aiuta ad esemplificare i giudizi o a fornire suggerimenti più circostanziati.

3. Il feedback deve focalizzarsi sull’apprendimento prima che sulla prestazione. Questo vuol dire far comprendere a che punto del percorso di apprendimento sono gli studenti e come devono procedere.

4. Si eviti il confronto con gli altri oratori o con l’altra squadra. La comparazione tra gli oratori non è adatta al fine educativo che la restituzione persegue. Spesso è proprio il tipo di giudizio che demotiva gli studenti e limita possibili miglioramenti.
La grande sfida per la scuola italiana è proprio l’adozione del dibattito come vera e propria metodologia didattica per l’apprendimento cooperativo. In quest’ottica il dibattito come laboratorio potrebbe affiancare la lezione frontale per un tempo addirittura superiore al 50%.
In questo modo potranno essere promosse abilità e competenze atte a sviluppare una conoscenza critica e consapevole. La stessa valutazione svolgerà un ruolo chiave per la promozione dell’apprendimento, unitamente alla scoperta e all’ascolto di sé.

BIBLIOGRAFIA
California High School Speech Association, Speaking Across the Curriculum, IDEA Press
Snider Alfred, Many Sides Debate Across the Curriculum, IBEABTE Press
Snider Alfred, Sparking Debate, How to create a debate Program, IDEBATE Press
Manuele De Conti – Matteo Giangrande, Debate. Pratica, Teoria e Pedagogia, Editore Pearson
Christopher Sanchez, Il Debate nelle scuole, Editore Pearson

SITOGRAFIA
Better Debate Manual, http://betterdebatemanual.wixsite.com/better
The noisy classroom, http://noisyclassroom.com/
Ministero dell’istruzione e del merito, https://www.debateitalia.it 

[1] World Schools Debating Championships (WSDC). Regolamento

[2] Shute, J. V. (2008). Focus on formative Feedback. Review of Educational research, 78, 153-189.

Lavoro in coppie e problem solving

I vantaggi dello studio in coppie

Il lavoro in coppie è, a mio avviso, particolarmente indicato per attività di problem solving perché:

  • ogni studente e studentessa dispone di più tempo per argomentare le proprie idee e per chiedere delucidazioni ai compagni sulle loro;
  • i più timidi possono partecipare senza la paura di fare una brutta figura.

In aggiunta, nel lavoro in coppia la classe impara:

  • a lavorare autonomamente;
  • ad autovalutarsi;
  • ad apprezzare diversi stili di apprendimento e intelligenze (si tratta, in realtà, di due teorie controverse);
  • ad apprezzare diversi punti di vista.

A differenza dei primi due punti, gli ultimi quattro sono ravvisabili anche nel lavoro in gruppo (tre o più studenti). Nel lavoro in gruppo, tuttavia, c’è il rischio di venire esclusi e, inoltre, sottrarsi alle proprie responsabilità diventa più agevole. Esistono degli espedienti per scongiurare tali preoccupazioni, ma produrrebbero, a mio avviso, un’interazione artificiale che limiterebbe l’autonomia degli studenti.

Malgrado queste riflessioni, in determinate situazioni potrebbe essere più produttivo formare uno o più gruppi di tre componenti. Per esempio, per equilibrare una coppia in cui è presente uno studente che è solito monopolizzare la discussione; o per fare in modo che chi vuole partecipare abbia la possibilità di farlo nonostante la presenza di uno studente che tende a isolarsi. Quest’ultima circostanza mi è capitata con uno studente affetto, presumibilmente, da Disturbi dello Spettro Autistico.

Infine, è inevitabile formare un gruppo di tre in classi con un numero dispari di componenti.

Tipi di coppie
Esistono due tipi di coppie: flessibili e fisse. Nel primo caso i componenti delle coppie cambiano una o più volte durante un’attività; nel secondo, la coppia lavora insieme per tutta la durata di un’attività.

Nelle attività di problem solving, le coppie flessibili sono le più adatte: lavorare con più compagni aiuta a esaminare un problema da più prospettive e ad avere un quadro sempre più nitido. È consigliabile, tuttavia, dare inizio al lavoro in coppia solo dopo una fase di lavoro individuale, in modo che i discenti abbiano l’opportunità di sfruttare al massimo le proprie risorse individuali.

Le coppie fisse potrebbero essere l’alternativa migliore in attività in cui si vuole dare l’opportunità di vivere in anticipo certe esperienze: parlando sempre con lo stesso compagno, gli studenti e le studentesse possono approfondire maggiormente. Potrebbero, per esempio, esercitarsi in vista di un’interrogazione (lo studente-insegnante fa le domande e l’altro risponde) o di un’intervista. Con questo tipo di attività, potranno acquisire sicurezza e rendersi più facilmente conto di eventuali lacune. Se entrambi gli studenti hanno la necessità di esercitarsi in entrambi i ruoli e hanno una sola lezione per farlo, si può ricorrere alle coppie flessibili anche in questo caso.

Quando interrompere le attività
È importante che non ci siano tempi morti: se uno studente non è occupato, si annoia; se si annoia, potrebbe comportarsi in modo inappropriato e la lezione diventare caotica. Quando una coppia non ha più nulla da dirsi, sarebbe meglio cambiare immediatamente la formazione di tutte le coppie o, a seconda dei casi, dichiarare terminata l’attività.

L’importanza di cambiare regolarmente la formazione delle coppie
I membri delle coppie non andrebbero cambiati solo durante un’attività, ma anche a ogni cambio di attività. Il fatto di variare le coppie più volte durante una lezione produce ulteriori benefici:

  • la classe diventa più coesa;
  • la motivazione resta alta;
  • il numero di comportamenti inappropriati diminuisce;
  • la creazione di un rapporto di dipendenza tra studenti è più facilmente evitabile.

Costruire i presupposti per il lavoro in coppia: i rompighiaccio
È importante che all’inizio della prima lezione di una classe appena formata il docente svolga un’attività di rompighiaccio. Il rompighiaccio è un’attività in cui gli studenti iniziano a conoscersi e imparano i nomi: spesso ciò non avviene spontaneamente. In questo modo, nei successivi lavori in coppia impiegheranno più energie.

Quando gli studenti non sono abituati a lavorare in coppia
Gli studenti non abituati a lavorare in coppia potrebbero sentirsi disorientati da questa improvvisa autonomia e agire in modo non consono. Per questa ragione, all’inizio si potrebbero proporre attività brevi. Inoltre, le regole devono essere chiare e bisogna intervenire in modo deciso in caso di trasgressione, adottando il sistema delle conseguenze (per un approfondimento, rinvio alle pp. 105-107 di questo articolo).

Vedere il bicchiere mezzo pieno
L’eventuale presenza di studenti che, nonostante tutto, non si danno da fare non dovrebbe far desistere dall’adozione di una modalità di lavoro in coppia: è opportuno focalizzare l’attenzione anche su coloro che invece lavorano con profitto. In ogni caso, tornare alle lezioni in plenum non è la soluzione: l’eventuale compostezza degli studenti durante la spiegazione dell’insegnante non ne prova necessariamente la partecipazione mentale.

Debate passo dopo passo

Le tre fasi per metterlo in pratica in classe

IL DEBATE PASSO PASSO: UN PROCEDIMENTO NATURALE

A dibattere s’impara solo dibattendo. Sara è un’ottima insegnante della scuola secondaria di Primo grado. Durante un corso di formazione sul Debate chiese: “Le attività sono belle e coinvolgenti, ma da dove cominciare per muovere i primi passi nel mondo del Debate? Di quante ore avrò bisogno?”

In realtà Sara conosceva perfettamente la risposta a questa domanda, ma l’aveva posta lo stesso per evidenziare un grosso problema della scuola: il tempo e la connessione delle attività con le discipline che vengono insegnate.

Per avviare le studentesse e gli studenti al Debate è fondamentale seguire un processo graduale e naturale. Soprattutto impostare un vero e proprio percorso di sviluppo. Non si può pensare di proporre il dibattito argomentativo solo una o due volte nel corso dell’anno scolastico. Dibattere deve essere una pratica costante, in grado di rivoluzionare il nostro modo di fare didattica. Partiamo da un presupposto fondamentale: tutto può essere oggetto di discussione, quindi, qualsiasi cosa accada nel corso della giornata scolastica può essere un pretesto per argomentare e dibattere. Da questo punto di vista, l’insegnante svolge un ruolo chiave fondamentale per favorire il coinvolgimento di tutti gli studenti e metterli in condizioni di comunicare e di esprimere fin dai primi momenti le loro idee.

Possiamo quindi ipotizzare un cammino che in linea di massima porterà alla realizzazione di un dibattito nell’arco di due ore:

  • FASE INIZIALE: L’ESPLORAZIONE

Si decide il topic da analizzare: generico per i più giovani, specifico per i più grandi. Il topic assume la forma di mozione e se ne parla tutti insieme. Attraverso una serie di domande, l’insegnante cerca di coinvolgere tutti nella discussione, anche i più timidi. Questa prima fase non è finalizzata alla costruzione del dibattito vero e proprio, ma ha lo scopo di analizzare il tema affrontato, strutturare l’esperienza, renderla oggettiva usando come mezzo di comunicazione privilegiato la lingua orale.

  • FASE INTERMEDIA: L’ARGOMENTAZIONE

In questo processo che va dalla presa di coscienza dell’esperienza soggettiva a oggettiva, viene introdotto un altro mezzo: la scrittura. Gli studenti e le studentesse, in piccolo gruppo, approfondiscono ed elaborano i discorsi, con l’obiettivo prevalente dell’organizzazione logica del pensiero. Gli studenti più grandi possono ampliare il loro orizzonte integrando delle letture sull’argomento.

  • FASE FINALE: IL DIBATTITO

Gli studenti, organizzati in squadre PRO o CONTRO, sostengono le proprie idee, ascoltano la controparte e confutano le idee degli altri nel pieno rispetto di regole stabilite nel protocollo. In questa terza fase, accanto alla lingua orale viene potenziato l’ascolto e il pensiero critico.

Vediamo nel dettaglio come mettere in pratica ciascuna di queste fasi.

 

FASE INIZIALE: L’ESPLORAZIONE

– Viene scritta la mozione alla lavagna (o il topic per i più piccoli) e, attraverso un brainstorming collettivo, si analizzano i termini. È fondamentale che gli studenti e le studentesse conoscano il significato delle parole e soprattutto colgano i rapporti tra gli elementi contenuti nella mozione.

– Sulla lavagna, divisa in due parti, si registrano tutte le idee a favore della mozione sul lato sinistro e tutte le idee contro la mozione sul lato destro. L’obiettivo è quello di esplorare la mozione in tutte le sue possibilità e al tempo stesso far prendere coscienza agli studenti del loro “vissuto”. È fondamentale che in questa fase gli alunni non si schierino dalla parte del PRO o dalla parte del CONTRO per evitare atteggiamenti di chiusura e quindi radicalizzazioni delle proprie idee.

– raggruppamento e schematizzazione alla lavagna delle idee emerse in fase di brainstorming: si individueranno 3 argomenti a sostegno del pro e 3 argomenti a sostegno del contro.

In questa fase la discussione, guidata dal docente, porterà gli studenti a riflettere sulle ragioni e le connessioni logiche emerse. Il mezzo di comunicazione privilegiato è l’oralità. Questa fase iniziale durerà più o meno a lungo a seconda dell’età della classe. Sarà necessario creare un clima di “confidenza ordinata” nel quale tutti parlino spontaneamente, ascoltino e cerchino di spiegare: non è richiesto nessun rigore logico nell’esposizione delle idee, ma il coinvolgimento di tutti quanti.

 

FASE INTERMEDIA: L’ARGOMENTAZIONE

A conclusione del brainstorming, la classe viene divisa in 6 gruppi (3 gruppi svilupperanno le argomentazioni PRO e 3 gruppi le argomentazioni CONTRO) e in modo casuale si assegna a ciascun gruppo l’approfondimento e lo sviluppo di un solo argomento tra quelli registrati alla lavagna.

All’interno del piccolo gruppo gli studenti hanno la possibilità di razionalizzare quanto è stato detto e verbalizzarlo in uno schema logico. Prima di procedere a questa operazione, gli studenti più grandi possono approfondire il tema con ulteriori materiali da leggere, soprattutto se si tratta di un argomento che esula dal loro vissuto personale. Queste letture extra possono essere fornite direttamente dal docente oppure cercate su Internet dagli studenti. In ogni caso questa è la fase dell’organizzazione logica del pensiero.

Ma come organizzare un discorso persuasivo? Uno degli obiettivi cruciali di questa fase è far acquisire agli alunni l’abilità di distinguere le ragioni e le evidenze (prove ed esempi) a supporto della posizione nel dibattito e presentarle alla giuria in maniera razionale e coerente.

Una procedura che consente di strutturare l’argomento è il cosiddetto metodo AREL, acronimo di Asserzione, Ragionamento, Evidenza, Link-back. È giusto dire che esistono anche altre strutture finalizzate allo stesso scopo, ma questo metodo sembra essere efficace per chi muove i primi passi nella pratica del Debate.

Il metodo AREL

ASSERZIONE: è una breve frase, viene assunta come tesi che verrà dimostrata attraverso il discorso. È una formula sintetica ed efficace che anticipa il contenuto del discorso. Nell’esperienza pratica, coincide con l’affermazione emersa in fase brainstorming, registrata sulla lavagna e che è assegnata alla squadra. Eventualmente quell’affermazione può essere migliorata per renderla più efficace.

RAGIONAMENTO: è la “spiegazione” con la quale si dimostra che l’asserzione è vera. Risponde alla domanda “perché?” Nella risposta si devono poter cogliere i passaggi logici che ne spiegano la validità. È il cuore di tutto il ragionamento: gli studenti devono comprendere che le cose non vanno solo affermate, ma è necessario spiegare il motivo per cui quell’affermazione è vera.

EVIDENZA: è indispensabile per rendere più robusto il discorso. Infatti, non è sufficiente affermare un’idea e dimostrane la validità con il ragionamento, ma servono anche degli esempi che confermano quanto detto. È chiaro che se gli studenti più piccoli potranno attingere al loro vissuto e riportare esempi di cui hanno avuto una diretta testimonianza, i più grandi potranno citare studi, ricerche scientifiche, affermazioni autorevoli di esperti nel settore d’indagine.

LINK-BACK: è la conclusione logica dell’argomentazione. Serve a ricollegare quanto detto alla strategia complessiva; serve anche a ribadire i principi ideali, i valori presentati durante il discorso argomentativo.

Per guidare gli studenti ad una elaborazione efficace del discorso potrebbe essere utile fornire uno schema, una tabella già organizzata in queste 4 sezioni (le righe) e 2 colonne: nella colonna a sinistra scriveremo l’acronimo AREL, nella colonna a destra gli studenti scriveranno il loro ragionamento. In questo modo anche gli studenti meno sicuri avranno una guida utile per sviluppare il loro discorso.

Dopo aver composto il proprio discorso, tutti i 3 gruppi di lavoro Pro si potranno incontrare e confrontare i 3 discorsi per classificarli dal più al meno convincente; la stessa cosa verrà fatta dai CONTRO. All’interno dei vari gruppi si decide chi esporrà i discorsi e ci si prepara al dibattito vero e proprio.

 

FASE FINALE: IL DIBATTITO

Il protocollo è l’insieme delle regole che si applicano in un dibattito. Va precisato che esistono diversi protocolli, ciascuno con caratteristiche proprie, adatto a soddisfare gli obiettivi formativi che il docente si prefiggere di raggiungere. Le variabili possono individuarsi in:

– numero di studenti coinvolti, che può variare da un minimo di 3 per squadra a tutta la classe contemporaneamente, attribuendo ruoli specifici;

– tempi di preparazione, che possono andare da un minimo di 1 ora fino a qualche settimana per la preparazione su temi più complessi;

– tempo concesso per ogni intervento, dai 2-4 minuti per la scuola del Primo Ciclo fino agli 8 minuti per quella del Secondo Ciclo.

– Fasi e ruoli all’interno del dibattito, che possono essere diversificati e adattati all’età e agli obiettivi.

Di seguito si propone il protocollo classico del World Schools Debate adattato alle scuole del Primo Ciclo:articolo debate 1

Chiaramente su questo modello base il docente può intervenire variando il tempo degli interventi, il numero degli oratori.

Vediamo infine il ruolo di ciascun oratore e quindi il flusso dei discorsi.
articolo debate 2

Come si evince da una rapida lettura della tabella, la confutazione è un elemento fondamentale del dibattito: se non c’è confutazione, non c’è confronto. Il rischio è che le due squadre facciano dei monologhi senza incontrarsi mai. È proprio con la confutazione che si attivano le abilità di ascolto e si sviluppano le capacità critiche.

Sarà sufficiente chiedere agli alunni e alle alunne di aprire il loro discorso con l’affermazione “Non sono d’accordo perché…”. Anche solo quest’onere indurrà gli alunni ad ascoltare con attenzione quello che viene affermato dall’altra squadra per cercare eventuali incoerenze nei loro discorsi.

Infine, un ultimo consiglio: durante le prime esperienze di dibattito si suggerisce di dare 5 minuti di tempo ad entrambe le squadre per elaborare la replica finale. Infatti, la replica richiede una capacità di sintesi e di efficacia difficili da gestire, soprattutto per i più giovani. Addirittura, nella Scuola Primaria sarebbe auspicabile che il docente stesso riassuma le posizioni prima della replica e guidi in questo modo le squadre all’elaborazione di un’arringa migliore.

Buon dibattito!

Desiderare è camminare tra le stelle

Il desiderio è un dono importante da fare alle bambine e ai bambini

Il desiderio è il regalo più importante che l’insegnante può fare ai suoi allievi e alle sue allieve!
Per questo dicembre 2022 la proposta è un invito a riflettere su una parola carica di significati importanti per andare verso il futuro, la parola “desiderio”, intesa come un sentimento tutto da esplorare e come un dono da vivere.

CHE COS’È IL DESIDERIO?
Il termine desiderio può assumere una molteplicità di significati, tanto la parola è ricca emotivamente, allusiva, densa dal punto di vista valoriale, attraente e misteriosa.

Canta Lorenzo Jovanotti:

 “… Vedo un turbinio di gente colorata
Che si affolla dietro a un ritmo elementare
Attraversano la terra desolata
Per raggiungere qualcosa di migliore…
Ogni cosa è illuminata
Ogni cosa è, nel suo raggio, in divenire
Vedo stelle che cadono nella notte dei desideri…”.

Testo e musica esprimono la forza del desiderio, soprattutto quel divenire che esso può alimentare!

Le stelle sono un perfetto richiamo per afferrare lo splendore e il fascino del desiderio…

La parola, letteralmente, significa “mancanza delle stelle”, dal latino desiderium (composto di de e sidera). Desiderare è percepire la mancanza delle stelle, un sentire che induce alla ricerca di stelle che possano illuminare il percorso. Desiderio è ’ il “sentimento di ricerca appassionata o di attesa del possesso, del conseguimento o dell’attuazione di quanto è sentito confacente alle proprie esigenze o ai propri gusti” (Devoto Oli).

In apertura del sito ufficiale di Massimo Recalcati si può leggere:
“… Avete agito conformemente al desiderio che vi abita?”

“La forza del desiderio” è il titolo di un libro pubblicato (2014) da Massimo Recalcati in cui l’autore presenta il desiderio come chiamata della vita, dilatazione della vita stessa, possibilità di renderla più piena e intensa.
Per la psicoanalisi desiderare è un imperativo che spinge l’individuo fuori da se stesso, una possibilità di vita che, se nascosta a se stessi, conduce alla sofferenza psichica.

In altro modo si potrebbe scrivere che il desiderio dilata l’orizzonte di vita e permette all’esistenza umana di essere più intensa e ricca. È “…… ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere. (Martin Buber, Il cammino dell’uomo).

In tal senso il desiderio è il regalo più importante che un maestro o una maestra può fare al suo allievo/a. Non si tratta, infatti, di “riempire” le teste di nozioni ma di testimoniare, di passare il desiderio di sapere. Socrate, in modo emblematico e universale, è il maestro che insegna non le cose ma il desiderio di sapere. Così attraverso la parola si realizza l’accensione e la trasmissione dei desideri.

DESIDERARE SIGNIFICA CAMBIARE
La lampada di Aladino, la celebre fiaba della raccolta Le Mille e una notte, racconta magicamente la forza del desiderio di cui la lampada è metafora. La storia narra delle vicende di Aladino e del potere di una lampada capace di soddisfare ogni desiderio di chi la possiede. Ma è proprio così? È il possesso della lampada che consentirà al protagonista della storia di raggiungere la felicità o l’uso che egli saprà farne? Aladino, presentato inizialmente come soggetto senza prospettive, diventa via via sempre più capace di esprimere il suo progetto di vita, pronto a lottare per ottenere i risultati che desidera, e proprio per questo la fiaba avrà il suo lieto fine.

Il desiderio come moto proprio dell’animo umano (che aspira a raggiungere ciò che considera un bene) è ben evidente nei bambini e nelle bambine anche quando non sanno ancora distinguere un bene immediato, un oggetto, capace forse di soddisfare semplicemente un capriccio, da una meta intesa come traguardo da conquistare e come realizzazione personale. Chiedere di esprimere un desiderio può essere la chiave per capire cosa sta vivendo un bambino/a, ma anche un adulto, perché ci sono desideri che cercano argini per ansie e preoccupazioni così come desideri che rivelano più o meno palesemente il bisogno di cura, di socialità, di comprensione. Sorprendente è scoprire il desiderio come ricerca appassionata in cui è possibile coinvolgere gli altri per camminare in un orizzonte pieno di stelle.

“In ciò concorrono anche i genitori. Ai genitori gli direi: primo, quando avete bambini piccoli non riempiteli di giochi di cui – tra l’altro – non gliene frega niente. Perché i giochi che gli date… non so se avete visto i bambini a Natale quando aprono i giochi con un nervosismo, devono strappare tutta la carta, vedere il gioco, esprimere un urlo, poi metterlo là: finito, morto. Già morto. Perché gli regalano dei giochi che i bambini, magari, non hanno neanche desiderato. E quando tu hai delle cose che non hai neanche desiderato non valgono niente perché è solo il desiderio che dà una carica di valore alle cose”.  (U. Galimberti,2018)

Quando arriva un desiderio, si verifica un’invisibile espansione di quello che si è, un’espansione che permette di scorgere nuovi confini e, dentro questi, di conoscere qualcosa in più di sé stessi.

“La vita non ha un senso: è desiderio. Il desiderio è il tema della vita” (Charlie Chaplin)

La metodologia didattica del debate

Regole ed esempi pratici per proporlo in classe

COS’È IL DEBATE

Il dibattito regolamentato, comunemente chiamato Debate, è una metodologia didattica innovativa e inclusiva che da un lato aiuta a sviluppare capacità di argomentazione e comunicazione, dall’altro sviluppa la personalità dei dibattenti.

Il dibattito è un’attività divertente e un gioco con regole precise, in cui due squadre contrapposte si alternano, esprimendosi a favore o contro un tema dato.

Con dovuti accorgimenti, è possibile dibattere ad ogni età e in ogni ordine di scuola.

ABBIAMO DAVVERO BISOGNO DI DIBATTERE?

Se consideriamo l’attività che regolarmente viene svolta nelle scuole italiane, ci troviamo di fronte ad una situazione che è, in un certo senso paradossale. Essa si concentra prevalentemente sull’acquisizione di conoscenze e contenuti, soprattutto nell’ambito matematico/scientifico e nelle tecniche di scrittura. Possiamo dire che nell’idea di scuola oggi assume una preminenza il compito di “alfabetizzazione culturale”, un’alfabetizzazione misurabile in base alle quantità di conoscenze e abilità specifiche acquisite sia al termine di tappe intermedie sia alla fine dell’anno scolastico.

In realtà oggi le insegnanti e gli insegnanti sanno bene che alla scuola spettano anche altri compiti, i quali sono invece formativi, nel senso che riguardano lo sviluppo e il consolidamento degli aspetti fondamentali della personalità di bambine e bambini e in particolare di certi atteggiamenti di base e di certe capacità generali che sono rilevanti sia sul piano dell’attività cognitiva sia su quello dei rapporti affettivi e sociali.

L’educazione, sottolinea Delors[1], deve:

– mettere in grado di capire se stessi e capire gli altri attraverso una migliore comprensione del mondo;

– favorire il superamento di tendenze egocentriche a favore di una comprensione degli altri basata sul rispetto per la diversità.

Dove attingere i parametri di riferimento, psicologici e concettuali per costruire un percorso didattico capace di perseguire questi obiettivi?

In un panorama ancora variegato e non riconducibile a una teoria o un modello unitario, quasi tutti “gli esperti” concordano su un punto: linguaggio e pensiero hanno una stretta e continua relazione.

Da questo punto di vista quindi, l’attività dibattimentale mostra tutte le sue potenzialità. Vediamone alcune:

1. Sviluppo del pensiero logico: mentre si organizzano le proprie idee e si spiegano ad altri, si guadagna inevitabilmente maggior confidenza e chiarezza di pensiero.

2. Sviluppo del pensiero critico: rispondere alle domande, valutare le risposte ricevute, aiuta ad avere una mente aperta, a riflettere sui propri pregiudizi, ad effettuare le scelte migliori.

3. Abilità nel parlare: comunicare in modo efficace utilizzando diversi canali come quello verbale e paraverbale.

4. Efficacia nella ricerca e organizzazione di informazioni: ricercare informazioni attraverso fonti cartacee o elettroniche; valutare il materiale ed organizzarlo nella maniera più ottimale.

5. Ascolto attivo: il dibattito migliora le capacità di ascolto critico, poiché per riuscire a confutare eventuali idee bisogna comprendere quello che viene detto e valutarlo attentamente.

6. Abilità nello scrivere e prendere appunti: la capacità di scrittura viene potenziata nel momento in cui, conclusa la ricerca, si tratterà di strutturare un discorso argomentativo, una scaletta che aiuti a capire o a spiegare il proprio punto di vista.

7. Lavoro di squadra: si deve necessariamente  lavorare come un gruppo se si vuole avere successo, condividendo informazioni e sviluppando strategie. Appena si sviluppano le abilità nel parlare, si sviluppano anche le competenze relazionali e quindi si è in grado di lavorare con gli altri in modo più costruttivo.

Il dibattito regolamentato quindi è in grado di fornire strumenti utili per analizzare la realtà, sviluppare un pensiero logico, esporre le proprie ragioni e valutare quelle di altri interlocutori. Soprattutto riesce a colmare quella incongruenza che caratterizza la scuola italiana la quale privilegia la competenza del “leggere, scrivere e far di conto” ma poca attenzione riserva allo sviluppo della competenza orale.

 

GIOCHI DI PERSUASIONE

Da dove cominciare quindi per sviluppare un naturale interesse verso il Debate? Soprattutto, a quale età sarebbe opportuno proporre attività di dibattito?

Anche se il bambino fino agli11-12 anni vive in uno stadio operatorio concreto[2], le sue capacità logiche progrediscono grazie all’introduzione di nuove operazioni mentali: il bambino è ancora legato ad esperienze concrete, ma è in grado di raccontarle in modo meno egocentrico e seguendo connessioni logiche corrette. Se a questo aggiungiamo la possibilità di un’interazione dinamica con l’ambiente circostante, ovvero lavorare in piccolo gruppo con i compagni di classe, è addirittura possibile accelerare il processo evolutivo del pensiero logico verso una maggior astrattezza[3].

Questo vuol dire che attività di Debate o di propedeutica possono essere svolte addirittura a partire dalla scuola primaria. Naturalmente si partirà con temi e attività legati al vissuto dei giovani alunni e poi si proporranno via via argomenti di discussione sempre più ampi e allargati al mondo circostante.

A mio avviso, per avviare alunne e alunni alla pratica del Debate, bisognerebbe porsi un problema di motivazione.

Il problema della motivazione e dell’interesse a svolgere una certa attività è sicuramente importante ad ogni età e in ogni ordine di scuola. Tale problema però assume un’importanza determinante nella scuola del Primo ciclo e nello stesso tempo solleva difficoltà maggiori di quelle che possono essere presenti ai successivi livelli.

Possiamo parlare di motivazione in quei casi in cui nello studente è presente una forza, un desiderio che lo induce a svolgere una certa attività o  ad impegnarsi in un compito. Se un insegnante risolve bene questo problema di fondo, si può ben dire che egli è a metà della sua opera.

Sicuramente il Debate, in quanto gioco tra squadre ha in sé una forte leva motivazionale: riesce a suscitare interesse e a coinvolgere studenti a tutte le età. Il rischio maggiore però è quello di pianificare attività non adatte all’età dei propri studenti, attività troppo complesse con l’inevitabile conseguenza di far crollare sia la motivazione sia l’interesse.

Un’ottima strategia è quella di proporre attività ludiche di propedeutica al debate. Queste attività sono adatte sia agli studenti di Scuola Primaria ma anche come primo approccio al debate agli studenti della Scuola Secondaria di primo grado: giochi di comunicazione persuasiva.

 

ALCUNI ESEMPI

  1. Parole significative

Durata: 10/20 minuti

Obiettivo: argomentare le proprie idee e negoziare con quelle degli altri, accettando le idee degli altri quando le loro argomentazioni sono convincenti. Abitua a esporre le proprie idee in modo convincente.

Svolgimento: si decide un argomento, ad esempio 8 parole significative sulla pace (o sulla libertà, sull’amicizia…ma anche su un autore studiato) e in un minuto tutti gli studenti devono scrivere l’elenco delle parole attinenti all’argomento prescelto che ritengono più importanti. Poi si formano delle coppie, ognuna delle quali deve trovare in due minuti un accordo sulla scelta delle 8 parole. A questo punto, unendo due coppie, si formano dei quartetti: ogni quartetto ha 3 minuti per decidere le 8 parole comuni. Si continua (aumentando il tempo al crescere dei gruppi) finché i partecipanti sono divisi in due squadre: a questo punto si deve cercare un accordo globale per ottenere le 8 parole valide per tutti.

Note: devono essere parole, non frasi.

 

  1. Punti d’interesse

Durata: variabile, fino a 40-50 minuti

Obiettivo: esprimere giudizi, giustificare le proprie scelte, ascolto reciproco e valutazione dei giudizi degli altri.

Svolgimento: si decide un argomento, ad esempio lo sport, (oppure l’amicizia, ma anche un tema sviluppato in classe: cibi geneticamente modificati, ecc…). Su questo argomento si preparano 6-7 affermazioni di giudizio, ad esempio “Le competizioni sportive sono dannose”, “Lo sport più salutare è il nuoto”, “E’ meglio guardare una gara sportiva invece di svolgerla”… Ogni affermazione viene scritta su un foglio diverso e ciascun foglio attaccato in punti tra loro distanti, nell’aula. Gli studenti, in gruppetti di 3, si posizionano vicino ad uno dei fogli appesi ed esprimono il loro giudizio sull’affermazione. Possono essere d’accordo oppure no, l’importante è spiegare il perché. Dopo 6/8 minuti di discussione si cambia postazione e quindi si cambia contenuto dei discorsi.

Note: gli studenti non devono trovarsi necessariamente d’accordo, ma è importante che ciascuno esprima i propri giudizi.

 

  1. Vendita al buio

Durata: variabile, fino a 40-50 minuti

Obiettivo: argomentare ed esporre le proprie idee con efficacia. Sviluppare abilità di public speaking

Svolgimento: si dividono gli studenti in coppie di lavoro. Ciascuna coppia sceglie un oggetto da vendere al resto della classe e organizza un discorso persuasivo per convincere la classe a comprare il proprio oggetto. Nel discorso non si deve menzionare il nome dell’oggetto, ma si deve spiegare perché è utile, i vantaggi che offre, e dare tutte le motivazioni possibili affinché venga acquistato.  Solo al termine delle trattative ogni studente scopre l’oggetto che ha comprato sulla base del discorso persuasivo.

Note: il gioco è particolarmente divertente se vengono venduti oggetti bizzarri.

 

ALCUNE REGOLE FONDAMENTALI

Non dimentichiamo che il dibattito è un’attività regolamentata, questo vuol dire che anche nello svolgimento dei giochi e delle attività ludiche dobbiamo fare in modo che siano osservate alcune regole fondamentali.

Vediamone due in particolare:

  • lo schema argomentativo (regola osservata dagli studenti)
  • la mozione “giusta” (regola osservata dal docente)
  1. Lo schema argomentativo

Fin da subito, anche con gli studenti più giovani, il docente deve aver cura di presentare lo schema argomentativo. Fatto di pochi ma chiari passaggi:

un’introduzione che spiega i termini del problema (nel caso di “Le competizioni sportive sono dannose” andrebbe spiegato cosa s’intende per competizioni sportive e cosa s’intende col termine dannose…)

la tesi da sostenere, ovvero se si condivide oppure no l’affermazione

gli argomenti che motivano la scelta servono e spiegare il perché delle proprie opinioni

la conclusione, ovvero una sintesi efficace di quello che è stato sviluppato nel discorso.

Un espediente utile, per guidare i nostri studenti a strutturare un discorso persuasivo, potrebbe essere quello di preparare una carta del discorso, una specie di tabella in cui “annotare” i concetti principali di ciascuna sezione. La carta del discorso svolgerebbe la stessa funzione di una scaletta utilizzata per la pianificazione di un testo scritto.

 

  1. La mozione “giusta”

La mozione è l’argomento di discussione. È un’affermazione nei confronti della quale il giovane oratore deve decidere se essere d’accordo oppure no. Anche se non è formulata esplicitamente con un punto di domanda, la mozione nasconde al suo interno un quesito a cui si risponde con un oppure con un no. L’obbiettivo è indurre gli studenti a spiegare “sì, perché…” oppure “no, perché…” e quindi a motivare e giustificare le proprie idee.

È bene che il docente sia in grado di formulare mozioni in modo corretto, per evitare che il dibattito sia sbilanciato o insostenibile da una delle due parti.

Generalmente le mozioni vengono classificate secondo tre generi: sui fatti, sui valori e sulle azioni[4]. In realtà la loro distinzione è solo concettuale e non vanno considerate a compartimenti stagni. Ad ogni modo, le mozioni sui fatti consentono di discutere su ciò che accade, è accaduto oppure accadrà; le mozioni sui valori inducono ad esprimere giudizi su persone, eventi, oggetti o situazioni; le mozioni sulle azioni sono relative a piani di azione adottati o proposti.

Per garantire un ulteriore chiarimento si forniscono esempi di mozioni relative al tema dello sport:

  • La bicicletta è un mezzo di trasporto diffuso dappertutto (mozione sui fatti)
  • Il ciclismo è lo sport più salutare (mozione sui valori)
  • Tutti gli studenti dovrebbero andare a scuola in bicicletta (mozione sulle azioni)

Già da queste mozioni esemplificative appare chiara l’interconnessione tra i diversi tipi di mozioni: non si può parlare di valori senza far riferimento a fatti, così come non si può parlare di azioni senza discutere dei valori che guidano le azioni o le decisioni in merito al problema analizzato.

In conclusione, saper riconoscere la tipologia di mozione o formularla correttamente è determinante per comprendere come guidare i nostri alunni alla costruzione di un discorso efficace e quindi orientare la discussione in modo costruttivo.

 

[1] J. Delors, op. cit, pp. 15-18.

[2] J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino, 1972

[3] L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934

[4] De Conti, Giangrande, Debate: pratica, teoria e pedagogia, pp. 37-43.

 

Rosa Carnevale

Docente di Storia e Filosofia, svolge regolare attività di coach e giudice in gare regionali e nazionali di Debate. Componente attivo della Società Nazionale Debate Italia, promuove la diffusione del Debate attraverso un’intensa attività di formazione nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo e secondo grado. È coautrice del Mooc Introduzione al Debate del Politecnico di Milano. Da diversi anni lavora all’applicazione del dibattito nelle attività disciplinari e curricolari scolastiche.

 

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La lingua italiana all’estero

L’esperienza di un professore italiano in Giappone

Nonostante una considerevole distanza separi l’Italia e il Giappone, nel Paese del Sol Levante c’è molta lingua italiana. Mi riferisco specialmente al settore commerciale: insegne dei negozi, nomi dei prodotti, ecc. non di rado sono italiani o italianeggianti. Gli errori di ortografia però abbondano e non c’è sempre una corrispondenza semantica tra la parola e l’oggetto. In più, quando le parole sono trascritte in kana, la scrittura fonetica giapponese, la pronuncia si discosta, almeno in parte, dall’originale. Ciò avviene per l’impossibilità di riprodurre fedelmente i suoni italiani con questo sistema e, verosimilmente, per semplificare la pronuncia italiana adattandola a quella giapponese. In altri termini, la correttezza non è una priorità: ciò che conta è che le parole stabiliscano un contatto con l’Italia e con tutto ciò che essa evoca.

Quanto è diffuso l’insegnamento della lingua italiana?

Per rispondere a questa domanda, partirò dai dati raccolti qualche anno fa dal Ministry of Education, Culture, Sports, Science and Technology.

Tra le scuole secondarie di primo grado, 1 offre corsi d’italiano. L’italiano si posiziona così al settimo e ultimo posto dopo l’inglese, il francese, il cinese, il coreano, lo spagnolo e il tedesco, per numero di scuole nelle quali questo insegnamento è impartito.

Le scuole secondarie di secondo grado nelle quali sono presenti corsi di lingua italiana sono 13. L’italiano occupa una posizione simile alla precedente: è all’ottavo posto dopo l’inglese, il cinese, il coreano, il francese, il tedesco, lo spagnolo e il russo. È seguito da una decina di lingue, per la maggior parte asiatiche; tra le europee figura il portoghese.

All’università le cose non cambiano. L’italiano viene insegnato in 111 università (il 15,1% del totale) e si posiziona all’ottavo posto dopo l’inglese, il cinese, il francese, il coreano, il tedesco, lo spagnolo e il russo. È seguito da poche altre lingue, tra le quali, ancora una volta, troviamo il portoghese.

Le università che offrono corsi d’italiano generalmente sono quelle nelle quali ci si specializza in musica e nelle belle arti. Ci sono anche 6 università nelle quali è possibile specializzarsi proprio nella nostra lingua.

La lingua italiana si insegna anche in alcune scuole professionali (si tratta di scuole per accedere alle quali è necessario almeno un diploma di scuola secondaria di secondo grado) e al Foreign Service Training Institute del Ministry of Foreign Affairs: è il luogo nel quale vengono formati i diplomatici giapponesi.

Ci sono corsi di lingua italiana anche presso associazioni italo-giapponesi, la Società Dante Alighieri e l’Istituto Italiano di Cultura.

L’italiano si insegna inoltre presso diverse scuole private di lingue. Secondo alcune vecchie statistiche fornite dal Ministry of Economy, Trade and Industry, i corsi d’italiano sono offerti dal 9,3% di esse (su un totale di 1.200 scuole oggetto dell’indagine). L’italiano occupa, così, la settima posizione, dopo l’inglese, il cinese, il francese, lo spagnolo, il tedesco e il coreano.

La seguente è una lista non esaustiva di scuole e istituti, suddivisi per città, nei quali si insegna esclusivamente o principalmente l’italiano.

Kyoto

1. Centro Culturale Italo Giapponese 

2.  Scholarum

Nagoya

1. Nagoya Nichii Gakuin 

2. Scuola Ambrosia 

Osaka

1. Centro Culturale Italo Giapponese 

2. Ciao amici 

3. Istituto Italiano di Cultura – Osaka 

4. Osaka-Nichii Gakuin

5. Società Dante Alighieri Comitato di Osaka 

Tokyo

1. Associazione italo-giapponese 

2. Bell’Italia 

3. Il Centro – Società Dante Alighieri Comitato di Tokyo

4. Istituto italo-giapponese 

5. Istituto Italiano di Cultura – Tokyo

6. Linguaviva

7. piazzaItalia 

Diversi insegnanti lavorano (anche) in privato. Per trovare studenti, spesso si registrano gratuitamente su appositi siti. Ne segnalo due:

1. GetStudents.net

2. Hello-Sensei 

L’italiano si può imparare anche alla televisione o alla radio, insieme all’inglese, al francese, al cinese, allo spagnolo, al coreano, al tedesco, al russo, all’arabo e al portoghese (le ultime tre solo alla radio).

I dati sopra riportati mostrano come la lingua italiana sia riuscita a conquistarsi una posizione di tutto rispetto. Tuttavia, attrae un numero ristretto di persone se paragonata ad altre lingue: il motivo probabilmente è da ricercare nel fatto che non è una lingua di lavoro, ma di cultura.

Chi insegna italiano?

Spesso una formazione glottodidattica non costituisce un requisito indispensabile per insegnare l’italiano: è sufficiente essere di madrelingua italiana, forse in parte per la difficoltà a reperire un numero congruo di docenti qualificati.

Molti scelgono di insegnare per ripiego, perlomeno all’inizio. Qualcun altro lo fa per arrotondare: rimasi perplesso quando, anni fa, una studentessa mi chiese: “Ma tu… che lavoro fai?”

Per insegnare italiano, bisogna essere pronti a spostarsi molto: le scuole, le università, ecc. in genere possono offrire solo poche lezioni e questo rende necessario lavorare in più scuole per poter sbarcare il lunario.

Chi studia italiano?

Nella mia esposizione prenderò in considerazione solo gli studenti adulti e anziani, e gli studenti universitari, poiché sono le categorie a me note, nonché le più comuni.

Studenti adulti e anziani

Chi studia italiano per scelta, come coloro che frequentano una scuola privata di lingue, solitamente è mosso da un genuino interesse per l’Italia. Questi studenti, spesso adulti o anziani, sono affascinati dal nostro patrimonio enogastronomico, artistico o naturale, dall’opera lirica, e così via. Questa attenzione verso la nostra cultura non sempre si traduce in dedizione allo studio; tuttavia, ritengo che, mediamente, questa tipologia di studenti sia più motivata degli studenti universitari. I problemi di disciplina, poi, sono sporadici: l’impegno richiesto al docente nella gestione della classe è minore. Maggiori, però, sono le energie da spendere per adattare attività non tradizionali, a causa di una certa diffidenza verso certe metodologie.

Studenti universitari

All’università, molti non studiano l’italiano per un’attrazione particolare nei confronti della lingua o del Paese; la possibilità che l’italiano torni utile nel mondo del lavoro è poi remota. Tra i miei vecchi studenti che apprendevano l’italiano come materia secondaria, alcuni riferivano che la scelta era caduta sull’italiano perché per un giapponese la pronuncia è più facile di altre lingue. Tra gli studenti che invece si specializzavano in italiano, alcuni dichiaravano che si trattava di un ripiego, non essendo riusciti a superare l’esame di ammissione dell’università alla quale aspiravano.

Molti studenti universitari che manifestano un interesse nei confronti del nostro Paese rivelano motivazioni a mio avviso deboli. Per esempio, c’era chi  aveva scelto di studiare l’italiano perché non poteva rinunciare al gelato; chi sognava di girare per Roma in Vespa come Audrey Hepburn nel film “Vacanze romane”; chi alla scuola secondaria di secondo grado aveva avuto un insegnante d’inglese originario dell’Italia giudicato “figo”.  

La bassa motivazione spesso si abbina a comportamenti poco lodevoli: c’è chi parla di fatti privati con un compagno; chi usa lo smartphone per scopi che esulano dall’attività didattica; chi si trucca; chi è indisponente; chi si reca puntualmente in bagno; ecc.

Ho notato, tuttavia, che è più facile far accettare una metodologia non tradizionale agli universitari che agli adulti e agli anziani. In parte, ciò presumibilmente è dovuto a una maggiore flessibilità cognitiva associata alla giovane età. Sospetto, però, che il motivo sia da ricercarsi anche altrove: nel fatto che nelle lezioni non tradizionali, ai loro occhi, non si studia, almeno non secondo l’accezione che loro danno al termine: memorizzazione di liste di parole e di regole grammaticali; e nel fatto che nelle attività proposte si tratta principalmente di praticare la lingua parlata (in qualità di madrelingua, mi vengono assegnati i cosiddetti “corsi di conversazione”), piuttosto che quella scritta: attraverso l’interazione con un compagno, si rendono più facilmente conto dell’utilità delle attività, con conseguente incremento della motivazione.

C’è un altro tratto che differenzia gli universitari dagli adulti e gli anziani: il fatto che i primi devono ricevere un voto. È al momento della valutazione che potrebbero riaffiorare delle convinzioni limitanti.
Per esempio, gli studenti potrebbero imputare le cause del deludente risultato alla metodologia e al fatto che l’insegnante non aveva esplicitato quali parole e regole grammaticali sarebbero state oggetto dell’esame di produzione orale. Con l’esperienza s’impara a prevenire molte di queste obiezioni: per esempio, nel secondo caso io dico che non mi interessa quali parole e regole grammaticali useranno correttamente, ma quante: questo, in genere, li tranquillizza.

 Francesco Diodato

 

Francesco Diodato, glottodidatta, è considerato il massimo esperto in Giappone di didattica dell’italiano come lingua straniera. È professore associato presso il Dipartimento di Lingua Italiana della Kyoto Sangyo University.

È inoltre coinvolto nella supervisione di progetti di ricerca e di collaborazione internazionale con atenei italiani e in percorsi di formazione glottodidattica.

I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente i fattori interni allo studente (la motivazione, le convinzioni, l’ansia, ecc.), lo sviluppo dell’autonomia dei discenti, la neurodidattica, la didattica dell’italiano a studenti universitari, l’apprendimento attivo, l’apprendimento collaborativo, il costruttivismo, la gestione della classe, il lavoro in coppia, l’acquisizione della seconda lingua, la formazione dei docenti.

 

 

Gamification a scuola: cosa è?

Come applicarla nell’insegnamento dell’inglese

Potrebbe non essere qualcosa di nuovo per coloro che conoscono un po’ il greco il fatto che le parole: “child”, “game” e “play” in greco hanno in comune la stessa origine. Condividono tutte la stessa radice: paidi, che significa bambino.

Quindi, la frase “Il bambino gioca” sarebbe qualcosa del tipo: “To paidi paizei paixnidia”. Non è sorprendente che in un linguaggio così ricco una sola parola sia usata per trasmettere tre idee diverse? Forse questo potrebbe essere semplicemente perché i termini “child”, “play” e “game” racchiudono tre aspetti dello stesso concetto.

Sin dai tempi antichi si sostiene che il gioco sia di grande importanza per i bambini piccoli e per la loro crescita. Questo assunto è vero ed è confermato da diversi studi che dimostrano come i giochi educativi, compreso l’apprendimento delle lingue, sono utili in svariati modi. Tale consapevolezza ha portato alla crescente popolarità dell’utilizzo di attività impostate sul gioco nell’ambiente di apprendimento, in altre parole, gamification.

Al centro della gamification nelle lezioni di inglese c’è l’incoraggiamento dell’apprendimento attivo. Attraverso giochi e attività ludiche, gli studenti possono sviluppare innumerevoli abilità come il pensiero critico, la creatività, il lavoro di squadra, la leadership, migliorare le strategie per trovare soluzioni e il tutto divertendosi.

Giochi ben progettati, utilizzati in vari modi, attraverso diversi media e piattaforme, possono coinvolgere gli studenti in un modo che pochi altri metodi possono fare. La bellezza del gioco nell’ambiente di apprendimento è che gli studenti sviluppano rapidamente l’autonomia e possono auto-correggersi facilmente, riducendo lo stress emotivo. C’è un chiaro percorso di progressione e gli studenti possono imparare seguendo il proprio ritmo.

Durante il webinar “Let the children play while Santa is coming to town! di mercoledì 9 novembre alle 17 esploreremo il concetto di gamification, vedremo alcuni esempi di attività ludiche (alcune con un tocco natalizio) oltre a siti Web utili e strumenti digitali per aiutarti ad accendere l’entusiasmo per i tuoi piccoli “giocatori”.

 

ENGLISH VERSION
It might not be new to those who understand a little bit of Greek that the words: “child” “game” and “play” in Greek have the same word origin. They all derive from the same root: paidi.meaning child .

So, the phrase “The child plays games” would be something like: “To paidi paizei paixnidia “ Isn’t it interesting that in such a rich language a single word is used to convey three different ideas? Perhaps this might be simply because the terms “child” “play” and “game” reflect three aspects of the same concept.

Since ancient times people seem to believe that playing games is of great importance for young children and their growth. This is quite true and it is confirmed by various studies which show that educational games including language learning are beneficial in numerous ways. This has lead to the ever-growing popularity of using  game-like activities in learning environment, in other words, gamification.

At the core of gamification in the ESL classroom is encouraging active learning. Through games and gamified activities, students can develop countless skills such as critical thinking, creativity, teamwork, leadership, improve strategies to find solutions, all these while having fun.

Well-designed games, played in a variety of ways, using different media and platforms, can engage learners in a way that few other methods can. The beauty of play in the learning environment is that learners develop autonomy quickly and can self-correct easily, with a minimum of emotional stress. There is a clear path of progression and learners can learn at their own pace.

During the webinar Let the children play…while Santa is coming to town” on Wednesday, 9th November at 5p.m  we are going to explore the concept of gamification , will look at some examples of gamified activities  (some with a Christmas touch) as well as useful websites and digital tools to help you ignite excitement to your little “players “ around the classroom.

 

Katerina Nikolla
Teacher Trainer e insegnante di lingua inglese

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I mediatori didattici

L’insegnante come mediatore didattico

Considerare la parola mediatore, a partire da un’analisi etimologica (dal lat. tardo “mediator-oris”) significa valutare il termine nel suo significato di “interporsi”, per favorire una scelta o un accordo. La parola ha un’ampia gamma di usi e di applicazioni a livello culturale, sociale, economico, giuridico. Certamente alcune di queste sfaccettature possono costituire apporti significativi per interpretare la complessità della funzione docente. Non possiamo tuttavia considerare l’insegnante un mediatore nel senso a cui ci ha introdotto il termine riferito alle nuove figure professionali che agiscono in quanto facilitatori di relazioni e di integrazioni, come il mediatore culturale. Né è proprio del docente agire in modo imparziale come avviene nella mediazione propria dell’ambito giuridico.

Possiamo affermare senz’altro che l’insegnante, per lo status che identifica il suo operato, per il profilo di responsabilità che lo rappresenta, è garante dell’educazione, attore nel processo di insegnamento-apprendimento che si realizza nella scuola.

Il concetto di mediatore, in particolare l’esame della specificità del ruolo, può essere utile per riconoscere al docente la capacità di utilizzare i mediatori didattici, secondo la valenza che la ricerca psicopedagogica ha elaborato a livello concettuale e operativo.

Alle insegnanti e agli insegnanti spetta considerare e configurare la scuola come “ambiente di apprendimento”, secondo una definizione propria del linguaggio specialistico della pedagogia e della didattica. Non si tratta semplicemente di insegnare ma di costruire, osservare, valutare situazioni di apprendimento, per avere cura di ogni singolo alunna e alunno, organizzando e animando situazioni specifiche di apprendimento. A tal fine l’insegnante si avvale dei mediatori didattici, vale a dire di strumenti e procedimenti che rendono maggiormente funzionale la comunicazione, che stimolano e potenziano il processo formativo.

La tematica è stata affrontata in modo organico e puntuale dal pedagogista Elio Damiano, autore del libro “La mediazione didattica”, in cui definisce il mediatore didattico come “ciò che agisce da tramite tra soggetto e oggetto nella produzione di conoscenza, sostituisce la realtà perché possa avvenire la conoscenza, ma non si sostituisce alla realtà esautorandola, pur richiedendo di essere trattato come se fosse la realtà, ma sempre, in quanto mediatore, conservando lucidamente la consapevolezza che la realtà non è esauribile da parte dei segni, quali che essi siano”. (E. Damiano, La mediazione didattica. Per una teoria dell’insegnamento, Franco Angeli Editore, 2013)

Damiano rimanda all’indagine sulla conoscenza di Piaget, di Brofenbrenner, alle forme rappresentative esecutiva, iconica e simbolica, studiate da Bruner, alla teoria dell’oggetto transizionale di Winnicott, per analizzare i mediatori didattici definiti: attivi, iconici, analogici, simbolici.

Rispetto agli stessi l’insegnante saprà effettuare le scelte più adeguate e opportune per alunne e alunni, saprà utilizzare mediatori caldi oppure mediatori freddi, come abile manovratore del termostato che regola la temperatura e il clima della classe.  

I DIVERSI TIPI DI MEDIATORI

  • I mediatori attivi sono quelli che fanno riferimento all’esperienza diretta, all’esplorazione, dall’azione in contatto con la realtà fino all’esperimento scientifico, programmato nella dimensione laboratoriale.
  • I mediatori iconici utilizzano il disegno spontaneo, le immagini, gli schemi, le mappe concettuali, il linguaggio delle icone, valorizzando la dimensione grafica e spaziale.
  • I mediatori analogici sono chiamati “ludici” poiché si basano sulle dinamiche del gioco, della drammatizzazione e della simulazione.
  • I mediatori simbolici utilizzano la narrazione, i concetti astratti, i simboli, i codici linguistici, le figure retoriche, la riflessione sul linguaggio e sulle regole.

LA DIDATTICA RETICOLARE E LA DIDATTICA A DISTANZA

La didattica che si avvale dei mediatori didattici è una didattica reticolare, nella prospettiva di una didattica per competenze. Usa in modo integrato tutti i percorsi e le strategie possibili, con l’attenzione ai singoli alunni e alla classe. Variabili importanti sono, infatti, lo stile cognitivo di ogni alunno, la sua storia, la composizione della classe, la realtà extrascolastica.

Non si tratta quindi di variare modalità di presentazione dei contenuti, si tratta di sollecitare l’interesse e la motivazione, di facilitare l’apprendimento con percorsi specifici e integrati. La scelta dei mediatori può offrire risposte alla necessità di differenziare gli interventi, di rispettare le tappe evolutive degli alunni, di valorizzare azioni didattiche coerenti con i molteplici aspetti dello sviluppo della personalità.

Le insegnanti e gli insegnanti utilizzano i mediatori didattici spesso in modo spontaneo, ovvero condizionati dalle risorse a disposizione. La loro attenzione è rivolta a creare occasioni produttive nello svolgersi della programmazione didattica, consapevoli dell’importanza che rivestono mezzi, strumenti, metodologie differenziate nel migliorare la gestione della classe e la qualità dei processi di insegnamento-apprendimento. La riflessione è aperta sull’impatto dei linguaggi digitali, che in tempo di didattica a distanza hanno cambiato profondamente l’azione didattica e la funzione stessa dell’insegnante e dei mediatori. Il computer permette di differenziare la didattica in classe, favorisce un uso da parte dell’alunno non semplicemente strumentale se gli insegnanti possono utilizzarlo come risorsa finalizzata a superare disabilità, sviluppare l’osservazione, consolidare abilità, sviluppare pensiero critico e creatività. La didattica a distanza ha contribuito a definire l’insegnante un mediatore egli stesso, oltre un professionista capace di utilizzare i mediatori didattici, ha innovato il ruolo focalizzando il suo porsi come “interfaccia”, facilitatore, nella relazione con gli alunni attraverso lo schermo. La trasmissione a distanza implica modi nuovi, molti da esplorare, riguardo la cura degli aspetti affettivi ed emozionali delle situazioni di apprendimento, finalizzate alla elaborazione del sapere e alla strutturazione di percorsi di maturazione dell’identità e dell’autonomia.

Considerando, tuttavia, che la formazione avviene dentro e fuori la scuola, la mediazione didattica deve riguardare anche modalità di intervento della famiglia e degli ambiti sociali di appartenenza, come processo che interessa gli individui nella pluralità e nell’integrazione dei contesti di vita in cui avviene la formazione stessa. Si tratta di rafforzare il confronto, il dialogo e la condivisione, nell’ottica di una consapevole alleanza educativa.

Imparare ad imparare

L’apprendimento e le strategie metacognitive

Nel percorso scolastico di ogni alunno e alunna un nodo spesso problematico riguarda il rendimento, sia quello accertato e verificato, sia quello percepito, correlato alla motivazione ad apprendere.

È nel sentire comune l’esperienza di constatare che i risultati conseguiti nello studio spesso non corrispondono alle aspettative. Capita di ascoltare docenti sconfortati dall’esito delle prove somministrate in classe, studenti e studentesse deluse dalla valutazione ricevuta in un compito, genitori preoccupati del rendimento scolastico dei figli.

Spesso, purtroppo, si consolida l’idea che la difficoltà del compito è insormontabile, che non si hanno capacità adeguate a portarlo a termine.

Si tratta, invece, di riflettere sull’insuccesso, di analizzarne aspetti e manifestazioni, per individuare nuove modalità di avvicinarsi al sapere e all’apprendimento. Così è importante chiedersi se le conoscenze sono state utilizzate in modo efficace, soprattutto se sono state organizzate in modo strategico rispetto ai risultati attesi. Si tratta di avere consapevolezza del funzionamento cognitivo, di poterlo autoregolare rispetto a un compito dato.

Obiettivo formativo per gli insegnanti è guidare l’alunno a diventare capace di migliorare il proprio apprendimento con strategie metacognitive.

Come dimostrano le ricerche condotte a livello di disturbi specifici di apprendimento, esistono correlazioni tra prestazioni cognitive e consapevolezza del funzionamento della propria mente. Ecco che studente e insegnante dovrebbero impegnarsi a individuare strategie per riflettere sulle operazioni mentali svolte per controllarle ed eventualmente modificarle al fine di avere prestazioni migliori. Si tratta di stimolare abilità metacognitive, di attivare la mente a lavorare su se stessa. A livello di metacognizione si considerano, ad esempio, riflessioni dettate dalla volontà di migliorare, quali: “Di quanto tempo ho bisogno per svolgere questo compito?” “A quali difficoltà devo fare attenzione in questa prova?” “Come considero lo svolgimento della prova che mi è stata assegnata?” “In passato ho svolto un compito con difficoltà simili?” Questi interrogativi non sono altro che strategie o conoscenze metacognitive.

La consapevolezza di come si svolge e come può modificarsi il processo conoscitivo è il presupposto per costruire l’abilità fondamentale dell’imparare ad imparare. La psicologia dell’apprendimento usa il concetto di autoregolazione, considera l’importanza di assumere limiti e risorse come sfide positive, considera la valutazione essenzialmente nella dimensione di autovalutazione.

 

LE MAPPE CONCETTUALI

Per imparare ad imparare ed essere capaci di riflettere sulla conoscenza, strumento utile sono le mappe concettuali, che rappresentano e comunicano sapere e processi di apprendimento. Approfondire la tematica prevede di differenziare mappe di tipo concettuale, mentale e strutturale, secondo gli orientamenti propri della ricerca a riguardo. Tuttavia, per quanto riguarda l’uso delle mappe a scuola è importante sottolineare il loro potenziale di risposta ai problemi scolastici degli alunni e delle alunne con difficoltà di apprendimento, con bisogni educativi speciali.

Le mappe concettuali (teorizzate da Joseph Novak) hanno un valore cognitivo, possono definirsi l’individuazione e l’organizzazione dei concetti chiave e delle loro connessioni; possono essere usate sia nelle fasi di studio, sia come schema finale delle conoscenze acquisite. Contribuiscono alla realizzazione di un “apprendimento significativo”, contrapponendosi ad un tipo di apprendimento prevalentemente mnemonico.

La mappa concettuale non rappresenta uno schema sintesi, è una rappresentazione che favorisce la comunicazione, stimola la riflessione, potenzia l’attività cognitiva, genera creatività.   

Le mappe rappresentano uno dei possibili modi di comunicare la conoscenza, una rappresentazione per chiarire, illustrare, esplicitare il sapere su un argomento, una disciplina, un progetto, attraverso relazioni che vengono poste in evidenza. Può essere definita una strategia di tipo organizzativo nel processo di apprendimento. Importante sarà perciò considerare i legami individuati e considerarli nessi di scoperta di relazioni e significati.

 

ALTRE STRATEGIE DI APPRENDIMENTO E LA META-MEMORIA

Altre importanti strategie metacognitive con valenza didattica riguardano la selezione, l’elaborazione, la memorizzazione delle informazioni. Gli insegnanti e le insegnanti possono guidare gli alunni e le alunne ad evidenziare informazioni importanti in un testo stimolando la capacità di scegliere dati pertinenti, essenziali, centrali. Anche leggere un sommario rappresenta una strategia funzionale a poter padroneggiare conoscenze, oppure provare a costruirlo a partire da materiali a disposizione. A livello di elaborazione del sapere una modalità che può sembrare ovvia, spesso sottovalutata, riguarda la capacità di porre attenzione ai legami fra le conoscenze, il saper collegare un nuovo concetto a quanto si è già appreso. Non ultima la memorizzazione, considerata, a livello di ricerca sui processi di apprendimento, meta-memoria.    

Si riferisce alla possibilità di sviluppare la memoria considerandola una capacità da potenziare. Significa superare l’idea che si possa avere buona o cattiva memoria e far uso di strategie di ripetizione efficaci, riuscendo a trovare modalità personali di ripetizione che implicano, ad esempio, la visualizzazione dei dati e delle conoscenze da assimilare.

La didattica metacognitiva contribuisce a stimolare un atteggiamento attivo e responsabile rispetto all’apprendimento. L’alunno impara ad imparare e costruisce il suo metodo di studio. Matura uno stile cognitivo che privilegia la capacità di porre domande, di evidenziare analogie, di astrarre, di stabilire relazioni, di valorizzare la creatività nei problemi da risolvere e nelle attività da svolgere.